Bocconi poco nobili, ma…da riservare ai preti buongustai

Ci sono tanti modi e pietanze di interpretare questo “boccone del prete” o “strozzapreti”, ma generalmente si tratta di qualcosa di particolare da riservare al prete, ad un invitato o all’anziano di casa in segno di rispetto. In copertina un boccone del prete piacentino, una specie di cotechino con l’aspetto di un cappello triangolare da prete.

Maria Catalano Fiore

consulenza di Nonna Camilla.

Tante pietanze o insaccati citano i Preti, ma sempre ironicamente per indicare l’ingordigia degli ecclesiastici.

Tante sono le pietanze o altro che indicano, anche nel gergo popolare, i “Bocconi” dei preti a partire dal sottocoda della gallina, quella parte anatomica cicciosa tutta polpa tenera fatta a triangolo detta appunto “boccone del prete”.

Zona contrassegnata dal n.6

Oltre alle galline, questa sottocoda, la portano spavaldamente, ancheggiando, anche tacchini, anatre e oche. Il nome scientifico sarebbe “Codrione”, ma l’espressione popolare resiste fin dal Medioevo. Nelle regalie che i contadini dovevano ai proprietari e ai preti doveva essere sempre compresa quella noce polposa e tanto buona da sciogliersi in bocca “Il Boccon del Prete”, appunto.

La fama di tale cibo è tale che nei secoli la letteratura ne fa ampio uso.

Troviamo il “Boccon del prete” in bocca a Mercuzio nel “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, che in altri casi lo indica come “Naso del prete” indicandolo proprio in vernacolo veronese.

Carlo Emilio Gadda, (1893-1973), ottima forchetta, nei suoi romanzi, in cui l’italiano convive con la contaminazione di più dialetti, cita volentieri aragoste, maionesi, risotti ecc…. con grandissima satira, anche in un contesto drammatico. Ad esempio nel suo romanzo più famoso “Quel pasticciaccio brutto di via Merulana” si diverte a descrivere una gallina che mostra ad un brigatiere il suo didietro scoperchiando “il boccon del prete in bellezza” e lo omaggia con un ricciolo barocco di escrementi alla pari dell’architetto Francesco Borromini (noto architetto tardo barocco).

Chi vuole approfondire questa conoscenza può leggere il libro di Giovanni Ballarini (Roma 1927 ), docente all’università di Parma per mezzo secolo e Presidente onorario dell’Accademia Italiano della Cucina che, tra i suoi tanti testi, ha pubblicato qualche anno fa un libro con un titolo che non ha bisogno di spiegazioni: “Il Boccon del prete, ovvero il culo della gallina? Scienza, storia e tradizioni in tavola”. E’ una raccolta di storielle, modi di dire e personaggi legati al cibo e ai costumi alimentari del passato e del presente.

Ballarini puntualizza che mentre “Per le piante e per le bestie il cibo è solo nutrizione, per gli esseri umani il cibo è identità, tradizione, memoria”.

Nel Dizionario della gastronomia troviamo molte parole legate agli uomini di Chiesa e al loro abbigliamento come il Cappello del prete, adesso in disuso, che era un cappello a tre punte, il tricorno dei tempi andati, che fa parte integrante del vocabolario dei macellai.

muscolo bovino a triangolo

Cappello del prete è il muscolo della spalla del bovino fatto a triangolo. E’ un taglio leggermente grasso che a Roma chiamano “Polpa de spalla”, a Milano “Fesone”, a Catania “Paliacciata”.

Ma “Capel del pret” è chiamato anche un salume della tradizione norcina emiliana. Anche qui è dovuto alla forma triangolare, bombata al centro che ricorda il tricorno e vanta ben cinque secoli di storia.

Sicuramente è il bis bis bisnonno del cotechino e dello zampone.

Alcuni storici della tavola lo fanno risalire al 1511, all’assedio della città di Mirandola da parte di Papa Giulio II. E’ quasi un prodotto sartoriale. Il muscolo che si trova sotto la scapola anteriore del suino, dopo opportuna salatura con un miscuglio di sale, pepe in grani spezzati, aglio ed erbette aromatiche, viene cucito nella cotenna.

La cucitura dev’essere perfetta fatta con un ago lungo almeno una spanna e spago robusto che durante la cottura impedisca fuoriuscite di carne e dei suoi succhi. L’esperto norcino conclude l’operazione schiacciando il “Capel del pret” tra due assi strettamente legate tra loro.

Dopo una stagionatura di un mese e mezzo si può compiere il suo ghiotto destino: lo si fa bollire per almeno quattro ore, poi si serve tagliato a fette. S’abbina bene con la Mostarda della bassa parmense fatta con le cotogne, pere e un buon lambrusco. Ma anche un bel contorno di un bel purè non è niente male.

Come il “Boccon del Prete” anche gli “Strozzapreti” richiamano l’ingordigia di ecclesiastici e vescovi che fin dal medioevo il popolo affamato vedeva ben pasciuti.


Strozzapreti è il nome di una pasta fresca, di media lunghezza, senza uova, tipica di quelle regioni dell’Italia centrale che facevano parte dello Stato Pontificio: Lazio ed Emilia Romagna soprattutto, è una pasta attorcigliata da masticare bene e non, come supponeva malignamente il popolo, sbafando di corsa e con ingordigia.

Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) poeta romano del 19°secolo, autore di ben 2279 sonetti, nei quali raccoglie questi umori popolari. Soprattutto nel sonetto “La Scampagnata” arrivando a dire che questa pasta grossa un dito, potesse strozzare i preti i quali, a suo parere erano capaci di papparsi persino l’uomo più grasso di Roma senza fare una piega. Il Belli, infatti, mangiapreti all’ennesima potenza, racconta di un pranzo fuori porta la cui ultima portata è un piatto “de strozzapreti cotti cor zughillo…io non pozzo capì ppe cche ragione/ sabbi da di cche strozzino li preti: quanno ogni prete è un sscioto (semplice) de cristiano/da iggnottisse magara in un boccone/ un sor(ciccione) sano sano”.

Lo scrittore e gastronomo Graziano Pozzetto giornalista, scrittore e gastronomo romagnolo, autore di saggi e di una vera enciclopedia culinaria) nel suo libro “la Cucina romagnola” avanza una seconda ipotesi: il nome deriverebbe dal gesto con cui “l’azdora” (casalinga) attorciglia la pasta per ricavarne gli strozzapreti: un gesto rabbioso, come avesse tra le mani il grasso collo di un prete al quale aveva dovuto consegnare le uova.

Gli abitanti di Trento che dal 1545 al 1563 furono sottoposti a procurare i viveri al “Concilio di Trento” e preparare lauti pranzi e banchetti ai prelati che ingurgitavano gnocchetti fatti di pane spinaci e uova e grana, ben conditi con burro fuso e salvia: “Gli Strangolapreti”.

Gnocchi sono anche gli strozzapreti pugliesi e calabresi. Persino la Corsica vanta un piatto anticlericale: “Gli Strunzpreti”

Ricordano i “Paccheri” campani le maniche dei frati, una pasta corta e larga che si presta ad accogliere qualsiasi condimento, così come le maniche dei frati accoglievano le offerte.

Ancora “Cappello di prete” è un grosso raviolo farcito di carne, di zucca, ricotta erbe o altro, usato, in varie dimensioni in diverse zone italiane.

Suore e monache hanno poi prestato poi il nome ad un particolare tipo di dolce, presente in alcuni luoghi del Sud, come Bisceglie con i suoi “Sospiri” e Taranto in Puglia, qualcuno a Napoli, ma la Storia, ed i Siciliani, che ne fanno largo uso, fanno risalire al 1725, quando Suon Virginia Casale di Rocca Menna che in un monastero agrigentino inventò i “Seni delle vergini”, praticamente delle stesse suore. Inserita dal Ministero delle politiche agricole tra i “Prodotti Agroalimentari Tradizionali”.

Nel mese di maggio, in concomitanza con i festeggiamenti per “Maria SS. dell’Udienza, Santa Patrona del luogo, si svolge una vera “Saga della Minna di Virgini”. Una vera festa di piazza.

Il nome casto suggeriva un unico peccato di gola. La fama e la forma del dolce uscì dall’isola per sbarcare a Napoli “le zizze di monaca” e in Abruzzo “Le Sise delle monache”.

E per finire la frutta! In Calabria le grosse angurie dalla scorza verde vengono chiamate “Zì parrucu”.

Insomma dal Boccone del Prete allo “Zì parrucu” c’è un ghiotto menù: un vero mangiare non da Prete, ma da vero Papa.

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