Mani pulite: l’onda giustizialista nel paese del Gattopardo

Trent’anni fa l’arresto di Mario Chiesa apre la stagione di Mani Pulite

Giovanna Selarolli

Un passaggio scritto su Libération il 24 luglio 1993, e riportato da Mattia Feltri nell’eccellente libro “Novantatrè: l’anno del Terrore di Mani pulite’’, un saggio edito da Marsilio, con prefazione di Giuliano Ferrara, recita: ‘’Abbiamo un barometro per misurare la sincerità dei magistrati italiani: dopo aver chiamato in causa politici e uomini d’affari, vedremo se chiameranno in causa, nella società delle pastette organizzate qual è diventata l’Italia, il ruolo svolto dalla magistratura stessa, senza la cui complicità nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto’’

Di quello strumento di misurazione si è persa ogni traccia e oggi, a 30 anni di distanza, il nodo politica magistratura è ancora irrisolto. A fare da eco le parole del Presidente Mattarella nel discorso di insediamento sul tema della giustizia, in cui si è visto costretto a sottolineare la necessità di un “profondo processo riformatore … dell’ordinamento giudiziario e del sistema di governo autonomo della Magistratura che devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”. 

Insomma, un richiamo alla credibilità, al rigore di una magistratura dominata dalle correnti fondate su un sistema di potere che le rivelazioni di Palamara ben hanno descritto, incentrate su interessi corporativi e persino interessi squisitamente politici. Un sistema incancrenito dai processi eterni, in cui la certezza del diritto spesso vacilla insieme all’imparzialità del giudizio, offuscata dal giustizialismo imperante degli ultimi anni.

Una magistratura che in un freddo pomeriggio del 17 febbraio 1992, sferra un primo colpo a quel sistema politico, definito poi Tangentopoli, uno dei più grandi scandali della storia repubblicana.

La valanga giudiziaria inizia con un arresto eccellente, quello del potente Mario Chiesa, Presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come “la Baggina”, famosa casa per anziani, che viene preso con “le mani nella marmellata”.  A incastrarlo, un giovane pm, un ex poliziotto, Antonio Di Pietro, che, come nella scena di un film,  invia direttamente nel suo ufficio un piccolo imprenditore munito di microspie e banconote segnate, inchiodandolo sul fatto: colto in flagrante, Chiesa incassa una tangente di 7milioni di lire da un’impresa di pulizie, in cambio di una concessione di un appalto.

Antonio Di Pietro

È il primo atto dell’l’inchiesta condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, coordinato dal procuratore Francesco Saverio Borrelli, e formato da Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro, Francesco Greco e Tiziana Parenti.

Mario Chiesa all’inizio non parla e non risponde alle domande dei magistrati. Solo dopo due mesi inizia a fare nomi e a rivelare l’esistenza di un complesso sistema di tangenti che vedeva il coinvolgimento dei partiti politici, nessuno escluso.

Intanto, in aprile le elezioni politiche lanciano  un segnale inequivocabile, decretando la morte dei vecchi partiti che subiscono un crollo;  il vento comincia a cambiare con l’affermazione della Lega di Umberto Bossi. 

I partiti vengono travolti dall’inchiesta Mani Pulite, tra avvisi di garanzia, arresti, suicidi e rinvii a giudizio, emerge un sistema corruttivo articolato e molto ben organizzato. Vengono svelati i  rapporti tra politica e imprenditoria italiana, arrivando a mettere sotto inchiesta, nei vari filoni giudiziari, svariate migliaia di persone, vengono coinvolti i colossi dell’imprenditoria italiana come Olivetti, Eni, Fiat, Montedison e Enel e, tra i tanti, i vertici del Partito Socialista Italiano e della Democrazia Cristiana.

Bettino Craxi, poco dopo l’arresto di Mario Chiesa e ben prima di ricevere il suo primo avviso di garanzia, dichiara di essere una delle vittime dell’inchiesta e propone persino l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla Procura di Milano.

E tuona: «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’anni, nell’amministrazione del Comune di Milano, nell’amministrazione degli enti cittadini – non in cinque anni, in cinquanta – non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione».

Ma oramai la macchina si era messa in moto e nel dicembre del 1992, oltre ai tanti politici inquisiti, Craxi, segretario del Psi ed ex Presidente del Consiglio viene sottoposto a inchiesta e comincia la sua battaglia personale contro i magistrati titolari dell’inchiesta, accusati di condurre «un gioco al massacro in piena regola, per perseguire un preciso disegno politico».

Mentre sale la febbre moralizzatrice nel Paese, il tribunale diventa un palcoscenico sul quale va in scena il grande processo in diretta, con il plauso dell’opinione pubblica eccitata dalle cronache di TV e stampa.

Milano ladrona Di Pietro non perdona”, è lo slogan in voga nel popolo in attesa di giustizia, un ritornello di cui si appropierà qualcun altro e che diventerà “Roma ladrona”…

Nel 1993 l’inchiesta Mani Pulite raggiunge il suo apice, ricevono avvisi di garanzia moltissimi esponenti politici del Partito Socialista Italiano, Craxi urla al golpe, ma è costretto a dimettersi.

In meno di tre anni, oltre 1200 condanne per tangenti e fondi neri, tra loro ci sono i più importanti imprenditori dell’epoca e tutti i leader e i tesorieri dei partiti che hanno governato l’Italia per mezzo secolo, spazzati via con le elezioni del 1994. 

Accusati di aver abusato della custodia cautelare, di averla usata per “far parlare”, il pool dei magistrati di Mani Pulite ha ghigliottinato un’intera classe politica, ma non a tutti, nel furore giustizialista, è stato riservato lo stesso trattamento, e soprattutto hanno lasciato irrisolto  il rapporto tra politica e magistratura e il rapporto tra il potere e la corruzione. 

Il sipario su Mani Pulite cala con le dimissioni di Antonio Di Pietro dalla Magistratura a seguito dell’inchiesta aperta dell’allora Ministro della Giustizia Alfredo Biondi. Un assicuratore, Giancarlo Gorrini denuncia il Pm Di Pietro sostenendo di essere stato ricattato e di aver subito pressioni e incessanti richieste di favori dallo stesso Di Pietro.

Scoperchiato il vaso di Pandora, tradito da alcuni suoi ex collaboratori,  il pubblico ministero più famoso d’Italia, ha fondato e guidato un partito, Italia dei Valori, è stato Ministro nel Governo Prodi, fino a quando ha deciso di ritirarsi in campagna a fare l’agricoltore.

Ma oggi, trent’anni dopo cosa resta di Tangentopoli? 

Oggi, le mani sono più pulite? 

Finita la stagione delle manette, dopo Tangentopoli, il sistema di clientele e di corruzione è ahimè ancora vivo e vegeto. 

La seconda Repubblica “ereditò dalla prima un sistema di clientele e corruzione ancor più subdolo e solido in un clima che favorì la crescita di poteri personali incontrollabili“, spiega all’Adnkronos, l’ex magistrato Armando Spataro che, impegnato in vari maxi processi di mafia, non accettò l’invito del procuratore Borrelli di far parte del pool quando Di Pietro decise di lasciare la toga.

Abbiamo provato a rivoltare questo paese come un calzino”, ha detto Camillo Davigo, il fustigatore, in una delle molte interviste rilasciate. Ma allora un’altra domanda sorge spontanea, perché dopo Mani Pulite sono arrivati i Bossi, i Berlusconi, e poi Grillo e i 5 Stelle al grido di onestà, onestà? 

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