Fermare i russi si può, rispedirli a casa loro richiede armi diverse

Debutta su lavocenews il colonnello Orio Giorgio Stirpe. Strategia e tattica divengono comprensibili.

Orio Giorgio Stirpe

Giorno 92

Diciamo una banalità: fermare un esercito più forte è una cosa, rimandarlo indietro a casa sua è un’altra.

Si tratta di una banalità apparentemente ovvia, ma per molti può non essere del tutto chiaro in cosa consista la differenza. Si tratta del classico problema in cui il grande pubblico può avere problemi a seguire una crisi i cui dettagli tecnici sono normalmente seguiti da personale specializzato: è successo con il COVID, quando tutti sono diventati virologi, e adesso succede con la guerra. In qualche modo il concetto è analogo all’eterno equivoco sulle “armi difensive”: può sembrare una definizione ipocrita, ma in realtà il modo più semplice per capire cosa si intende sarebbe osservare quale tipo di armi l’Occidente stia fornendo all’Ucraina, perché qualunque cosa pensino coloro che criticano la NATO a priori, l’Alleanza sta effettivamente fornendo all’aggredito solo quei sistemi d’arma e di supporto al combattimento che occorrono per affrontare l’urto di un invasore pesantemente armato, contenerlo e arrestarlo infliggendogli perdite tali da ridurne il potenziale offensivo al di sotto della soglia critica oltre la quale non è più possibile attaccare con successo… Ma assolutamente niente di più di quanto occorra per fermare un esercito più forte, appunto.

Le armi che invece occorrerebbero per rimandare il nemico a casa e strappargli con la forza i territori occupati, deliberatamente non vengono concesse. La conseguenza è che il potenziale militare ucraino è relativamente cresciuto a confronto di quello russo, ma non abbastanza da scavalcarlo ed assumere l’iniziativa. Questo naturalmente al netto del fatto che a causa delle perdite subite sono calati entrambi in valore assoluto, ma quello russo in maniera maggiore a causa dal maggior quantitativo di mezzi impiegati e di personale professionista fra le sue fila, entrambi di difficile rimpiazzo sotto sanzioni e in mancanza di uno stato di mobilitazione generale.

Perché l’Occidente non invia armi “offensive”? In fondo l’Ucraina ha tutto il diritto morale di rivendicare i propri territori occupati con la forza da un aggressore non provocato.

Su questo non c’è dubbio, e spero sia chiaro che dal punto di vista etico lo penso anch’io. Ma da quello pratico, occorre rendersi conto che una sconfitta catastrofica della Russia non è nell’interesse dell’Europa e neppure dell’Occidente; di conseguenza, essendo l’Ucraina ormai a sua volta parte dell’Europa e dell’Occidente, non è nemmeno nell’interesse di Kyev, e il presidente Zelenskiy se ne rende perfettamente conto.

La ricostruzione dell’Ucraina sarà un impegno economico colossale per tutti, e ritarderà inevitabilmente l’integrazione pratica e formale del paese nell’EU. Ma si tratterebbe di una sfida quasi minuscola a confronto di cosa sarebbe doversi far carico della ricostruzione di una Federazione Russa collassata su sé stessa non solo economicamente ma anche politicamente e socialmente. Occorre inoltre tenere conto del rischio rappresentato da una possibile perdita di controllo sull’immenso arsenale nucleare russo: se questo finisse in mani sbagliate rappresenterebbe una minaccia assai più pericolosa di quella dell’autocrate del Cremlino.

Questi fatti sono dolorosamente chiari a tutti gli attori principali di questa vicenda tormentata, e condizionano pesantemente le modalità con cui l’Occidente può e deve sostenere l’Ucraina.

In questi ultimi giorni sembra che i russi abbiano ripreso l’iniziativa, ma questa volta in maniera molto più razionale: sembra che operino “con una marcia in più”. Questo dipende quasi certamente dal fatto che la direzione delle operazioni è stata finalmente sottratta al potere politico per tornare in mano ai militari professionisti rappresentati da Valery Gerasimov. L’arrembaggio scoordinato e il fuoco terroristico a massa sono stati sostituiti da attacchi localizzati e sistematici e da un impiego dell’artiglieria finalmente diretto in supporto alle unità tattiche.

L’aviazione ha finalmente cominciato a fare il suo lavoro, operando in stretto coordinamento con le forze terrestri e in supporto alla manovra. L’artiglieria è stata concentrata nel settore prescelto per lo sfondamento, e i “BTG” destinati alla manovra decisiva vengono ruotati in modo da evitarne un logoramento eccessivo.

Insomma: l’esercito russo sta finalmente operando all’altezza delle proprie capacità e secondo la propria dottrina. Un po’ come durante la II Guerra mondiale quando i comandanti tattici si videro restituire da Stalin il controllo delle proprie unità, che era stato espropriato dai commissari politici, e l’Armata Rossa cominciò a riprendere il sopravvento sulla Wehrmacht.

Ma se osserviamo il conflitto in prospettiva, potrebbe essere già troppo tardi. Le perdite subite, in uomini e materiali, non sono rimpiazzabili in tempi utili, e nessuno degli obiettivi fissati pubblicamente all’inizio dell’invasione da Putin appare ormai raggiungibile da parte dell’esercito russo. L’ingresso contemporaneo in linea di mezzi corazzati ultramoderni non ancora in dotazione organica ad alcun reparto e di carri armati tirati fuori dai fatiscenti depositi sovietici come i T-62 ormai dismessi da cinquant’anni, indica come la situazione degli equipaggiamenti appaia drammatica. Impiegando sul campo armi tanto diverse, il personale si trova ad impiegare sistemi sconosciuti, la logistica si complica ulteriormente e il rendimento si differenzia sempre di più fra un reparto e l’altro. Il personale stesso, demoralizzato e scosso dalle perdite, vede aumentare la componente di leva e quella delle milizie a scapito di quello professionista difficilmente rimpiazzabile, con una pericolosa perdita di coesione interna.

Insomma: l’esercito russo sta facendo meglio, ma non abbastanza per soddisfare le ambizioni iniziali.

Sul fronte opposto però anche l’esercito ucraino è esausto. Il morale è ancora molto alto, ma le perdite di personale sono paragonabili a quelle russe, anche se trattandosi di coscritti sono più semplici da ripianare; aerei e carri armati ormai scarseggiano drammaticamente ed essendo in sostanza parte delle famose “armi offensive”, l’Occidente non li sta rimpiazzando se non in minima parte. Arriva artiglieria da campagna e non missilistica, missili controcarri e contraerei ma pochi carri e nessun aereo; vengono forniti equipaggiamenti individuali, radar, radio e droni ma niente sistemi a lunga gittata.

Insomma, come dicevamo prima: quanto basta per fermare i russi, non per rimandarli indietro umiliati.

L’offensiva russa attualmente in atto nel Donbass settentrionale che appare avere maggior fortuna delle precedenti, è in realtà estremamente localizzata: da quello che appariva inizialmente uno tsunami di carri armati lanciati attraverso tutte le frontiere comuni, si è passati prima ad una offensiva regionale nel solo Donbass, e adesso ad un attacco quasi chirurgico concentrato su Severodonetsk, l’ultimo insediamento dell’oblast di Luhansk ancora in mano ucraina. Un attacco di successo, dove finalmente i BTG russi manovrano come previsto, e che potrebbe portare all’occupazione della città nei prossimi giorni. Ma in nessun caso un attacco decisivo, o anche solo capace di portare l’intero Donbass in mano russa: al massimo, appunto, il solo oblast di Luhansk.

Potrebbe però essere un successo tale da salvare la faccia alla Russia e a Putin, da vendere bene sui media internazionali e soprattutto sulla propaganda interna… Peraltro, un successo che il presidente Zelenskiy non nega e appare perfino incline a confermare, quasi fosse nel suo stesso interesse che avvenga.

Di fatto, con i russi ormai bloccati sulla difensiva lungo tutto il fronte e attivi solo intorno ad una sola città e con l’Occidente deciso ad evitare un’escalation del tutto indesiderabile, all’Ucraina ora conviene una sospensione delle ostilità che consenta un inizio di recupero economico e militare. Nel contempo, con gli ucraini privi di potenziale controffensivo e il proprio esercito ormai oltre il culmine delle proprie capacità offensive, anche ai militari professionisti russi conviene arrestare almeno temporaneamente le operazioni per recuperare almeno in parte le proprie forze e garantirsi contro un possibile successivo ritorno offensivo ucraino.

Insomma, in questo momento il governo ucraino e l’esercito russo adesso hanno un interesse convergente in un “cessate il fuoco” effettivo: magari non formale, ma comunque tale da arrestare lo spargimento di sangue e consentire un primo inizio di dialogo.

All’orso Vladimiro potrebbe non piacere, ma forse ormai è una via obbligata.

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