U’ Suffritt lucan

Una ricetta, ma prima ancora la storia di una famiglia ed una tradizione di cucina e commercio di vini

Maria Catalano Fiore

Per motivi vari, oggi mi tornano in mente posti, odori e sapori della mia infanzia trascorsa dai nonni lucani, e la mia bisnonna.

Se volete….passate tranquillamente alla ricetta.

La bisnonna Carmela, l’unica che ho conosciuto, anche se per breve tempo, e la sua “Cantina”. In paese Cantina indica una specie di “Locanda” dove gli uomini si trattenevano a bere di sera, dopo il lavoro. Era l’unico svago in un piccolo borgo di montagna, quasi sempre freddo, incontrarsi in “Cantina” scambiarsi due chiacchiere, una partita a scopa o tressette, ordinare un mezzo litro di vino, allungato con una “gassosa” di produzione locale, e poi a turno tirar fuori un bel pezzo di pane duro e ordinare “U’ Suffritt”. Un piatto veramente povero, ma per loro, contadini, braccianti o piccoli artigiani giornalieri era un lusso. Generalmente un pezzo di pane era compreso (o lo facevano avanzare) nel compenso di fine giornata lavorativa. Qualche moneta, mangiare e poi un pezzo di pane.

Mammarann Carmela Avigliano, era veramente brava in cucina, dote trasmessa a mia nonna Camilla e a suo fratello Francesco, che ha poi ereditato quella Cantina/Trattoria. Mammarann (La bisnonna) era veramente una donna forte, molto all’avanguardia per i tempi, Gestiva già un commercio di vini trasportati da un “sensale”, commerciante, di Rionero in Vulture. Per amore, aveva sposato, un bellissimo ragazzo riccio, biondo, occhi chiari, un poco più giovane di lei, ma dopo 4 figli uno dietro l’altro, l’aveva lasciata sola, dopo una brutta bronchite, con i bambini tutti piccoli, la Cantina, che avevano aperto, da mandare avanti, alcuni terreni, un vigneto e soprattutto badare da sola al commercio dei vini. Il commerciante di Rionero aveva il cognome Rizzo, lei per tutti in paese diventò Carmela U’ Rizz, ed anche i suoi figli.

Questa Cantina, dove potevi arrivare anche a notte fonda ed occhi chiusi guidato dall’odore dei suoi soffritti ed altri piatti, era, in paese, in un’ottima posizione, una strada di mezzo, di passaggio per tutti. Un bel piazzale sopraelevato, poi questo grande salone con un grande camino centrale, tavoli, sedie, bancone e sul fondo, protette da un tendaggio le grandi botti di vino ospitate in un locale che finiva in una grotta naturale, (una parte della cripta della Chiesa Madre). Una situazione ad incastro ottimale per conservare botti di vino e carni essiccate, salumi, formaggi ecc… Al piano superiore un bell’appartamento molto soleggiato con vista su tutta la vallata del fiume Basento. Ma in casa, Mammarann, ci stava poco sempre impegnata tra commercianti di giorno e avventori di sera. Quindi, da vedova aveva trasferito in una saletta entrando sulla destra la sua camera da letto in modo da tenere sott’occhio i piccoli, metterli a dormire, mentre lei era impegnata.

Carmela Avigliano ved. Tamburrino (Carmela U’ Rizz) in una foto datata febbraio 1925 scattata in occasione delle nozze di nonna Camilla, da un fotografo professionista da inviare a suo figlio Giuseppe Tamburrino (zio Peppe l’americano) a New York.

Crescendo i ragazzi si erano spostati al piano superiore, ma lei era rimasta giù anche perché il più grande Giuseppe, uno dei ragazzi del 1899, tornando da quel massacro decise di emigrare in America, non si sentiva più italiano dopo quello che era stato costretto a vivere. Aveva ragione, in America a New York da subito si sistema in una Job, crea una sua clientela come ebanista, non si è mai sposato E’ diventato il nostro “Zio d’America” che spediva pacchi vari durante il secondo conflitto mondiale, poi dopo gli anni 50, tornava spesso in Italia, e sempre carico di doni per tutti. Anche se non era presente, durante le feste, compleanni ed onomastici arrivava sempre un “Travel Chek” per tutti.

Il secondo, aveva studiato, era Direttore del Consorzio Agrario, da sposato aveva preso lui quell’appartamento, mia nonna Camilla sposata giovanissima, il fratello più piccolo, Francesco(Ciccillo) aveva rilevato l’attività sia del Commercio di vini che della gestione della Cantina/Trattoria.

Come tutti aveva ereditato la passione per la cucina, infatti uno era diventato un cuoco raffinato che ingaggiavano anche per cucinare a matrimoni o ricorrenze varie, dove ovviamente proponeva il suo famoso vino du’ Rizzo.

Pertanto per un centinaio d’anni e più, dal 1870 sino alla morte di zio Francesco, quasi alle soglie del 2000, in buona parte del paese aleggiava l’odore del soffritto, ma non solo.

Il grande camino ospitava sempre varie pignate e caldaie, piuttosto grandi con il soffritto, fagioli con cotiche, ceci con alloro, legumi misti con fave, tanti cibi poveri che andavano da soli, cucinati lentamente, dove si attingeva all’occorrenza e si serviva un bel piatto fumante a chi aveva già ordinato il vino e tirato fuori il pane dalla sua bisaccia di tela tessuta a telaio.

Di quegli uomini, ricordo ancora i soprannomi (i cognomi li ricordavano in pochi). Gente dai volti scavati, dalle mani indurite dai calli, erano li in un momento di vera serenità, a consumare un pasto caldo, ridere, litigare qualche volta, per sciocchezze, bere il loro vino e giocare a carte in un rifugio caldo. Che odore quei ceppi grossi nel camino, i rametti come incentivo e la cenere calda dove potevano anche metterci piccole patate o fave a cuocere, mangiate con la buccia, cosparse di sale e saporitissime, non credo mai lavate in precedenza, tanto il fuoco purifica tutto.

Una atmosfera così accogliente e il sorriso di Mammarann e le sue braccia che accoglievano figli e nipoti, unica pronipote io. Basita e spaesata il giorno che ho visto il portone della cantina chiusa. Lo stesso vuoto allo stomaco che provo tutt’ora passando di li e vedendo tutto in abbandono e parzialmente crollato. Purtroppo le successioni testamentarie, non vanno sempre a buon fine.

Ma lasciando perdere le malinconie vi voglio parlare del famoso Soffritto di Mammarann U’ Rizz che poi è la ricetta tipica del Soffritto Lucano e che ha fatto la fortuna di qualche Locanda, ora Ristorante, della vicina città di Potenza, come la famosa “Taverna Oraziana” aperta da una sua nipote e suo marito, insomma una famiglia che amava cucinare, gustare e commerciare vini.

Un soffritto anche napoletano se vogliamo, ma per la cui piena riuscita occorrono ingredienti tipicamente paesani, difficilmente reperibili in città come la “Conserva di pomodoro”, la “Conserva di peperoni dolci o piccanti” la “Sugna” o le stesse “Frattaglie di maiale” o di agnello, come usano a Roma, non sempre disponibili in macelleria. Se capitate in qualche paese meglio fare una puntatina in una fornita Macelleria se volete cimentarvi in questa ricetta.

U’ SUFFRITT !

Indredienti, più o meno 8 persone, generalmente si consuma in gruppo, 1,800 g. di interiora di maiale; 100 g. di sugna; 3/4 cucchiai di olio d’oliva, un bicchiere di vino rosso, 150 g. di conserva di pomodori, 150 g. di conserva di peperoni dolc,; qualche peperoncino piccante tritato finemente, la quantità dipende dai gusti, sale q.b. 3/4 foglie di alloro.

.Innanzi tutto dovete procurarvi le “frattaglie varie” , polmoni, fegato, milza, cuore, interiora varie di maiale, quelle che i profani considerano “inutili”, ma i Gran Gourmet apprezzano. Quella che a Napoli definiscono “La copete” tagliateli a pezzetti di un paio di cm.

A Bari si definisce Coratella e si usa anche per altre pietanze.

Mettetele in acqua fresca, per un paio di ore almeno lavatele bene, e cambiate spesso l’acqua fino a disperdere qualsiasi traccia di sangue. Mettete a sgocciolare bene.

Prendete un bel paiolo o tegame in coccio o altro bello alto. Un filo di olio sul fondo e accendete i fornelli. Un camino sarebbe l’ideale.

Quando l’olio comincia a sfrigolare, aggiungete la sugna, o nel caso il lardo ben tritato, quindi aggiungete il soffritto e fate andare a fiamma vivace. Se sentite sfrigolare sfumate con il bicchiere di vino rosso, aggiungendo man mano la Conserva di pomodoro, poi di peperoni e quindi i peperoncini tritatati.

La Conserva

Aggiungete le foglie di alloro e un paio di bicchieri d’acqua, sale, se occorre, la conserva è già condita, e lasciate andare a fiamma molto bassa per 3 ore almeno.

Controllate che non si asciughi, potete aggiungere altra acqua, e che sia ben cotta, rigirate il tutto con un cucchiaio di legno.

Controllate che il sugo sia bello lucido e denso. Una volta pronta potete accompagnarlo a crostoni di pane casereccio, meglio se raffermo, oppure potete condire la pasta, spaghetti se siete napoletani,

rigatoni o bucatini se siete romani, (ma spesso le interiora sono di agnello) la vaccinara, con tanto formaggio pecorino, er Cacio

ma se siete lucani una buona pasta casalinga, tipo Troccoli o Strascinati, lunghi o corti, non ve la farà mancare nessuno. Buona degustazione da me, da nonna Camilla e da quella gran donna di Carmela Avigliano ved. Tamburrino (Carmela U’ Rizz).

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