Louis Armstrong

Ovvero: il genio fa le cose che non ti aspetti. Secondo articolo delle “pietre miliari” a cura di Antonio De Robertis, “la voce della Radio”..

Antonio De Robertis

Violinista mancato causa incidente automobilistico con frattura dei polsi, professore d’inglese che sottoponeva gli allievi a prove a dir poco singolari, umanista innamorato della cultura europea, complici, nel cognome Уланов, le evidenti radici russe, marito per trent’anni di Joan Bel Geddes, scrittrice e sorella di quella Barbara che tutti ricordiamo inutilmente innamorata di Jimmy Stewart ne “La donna che visse due volte”, Barry Ulanov ha segnato i miei anni di adolescente, facendomi innamorare del jazz perché autore di un fantastico, imperdibile saggio, quasi un black hole per densità e massa di notizie.

Il “Manuale del Jazz”, pubblicato da Feltrinelli nel 1961, condensa in poco meno di trecento pagine tutto ciò che i primi sessant’anni dello scorso secolo hanno prodotto quanto a correnti, stili, composizioni, incisioni discografiche e, naturalmente, protagonisti. Quanto e quante volte l’abbia letto, compulsato e consultato, lo dice lo stato in cui il volume è ridotto. Mai come in questo caso un’immagine vale più di mille parole

A questo punto, qualcuno potrebbe dire: “Ma che c’entra questo lungo preambolo con Louis Armstrong?” Giusto! La domanda è legittima, ma giuro che non sono pagato a battuta (precisazione che è, essa stessa, una “battuta”) e dunque mi affretto a spiegare.

Ulanov è lo snodo che mi permette di tornare a Satchmo perché nel capitolo dedicato agli strumenti (cito me stesso, a proposito del jazz, dal pezzo della scorsa settimana: “…la cornetta e la tromba …. i due strumenti che meglio di ogni altro ne identificano il suono e lo spirito.”), il primo preso in considerazione è, giustappunto, la tromba.

Con tutto il rispetto e l’ammirazione per Nick e Bix, dei quali amo la limpidezza del suono, la fantasia e la complessità dell’esposizione, per me è Louis l’inarrivabile, per la passione che senti nelle note, la loro rotondità squillante, quasi un marchio di fabbrica; il “timbro di Satchmo” totalmente privo di esitazioni e flessioni del registro.

Armstrong è stato un irrequieto, anche un po’ anarchico, nell’arte così come nella vita privata. Non si è mai piegato alle logiche delle grandi orchestre, composte di solisti di prima grandezza ma agli ordini, per così dire, del band leader. La sua storia ci dice che ha preferito il ruolo di primus inter pares in gruppi da lui stesso organizzati, come gli Hot Five e gli Hot Seven negli anni Venti e, più avanti, nei Quaranta, gli indimenticabili All Stars.

C’è che l’ha criticato (“Pierino” lo trovi dappertutto) perché a volte indulgeva alla popolarizzazione -ma quanto ha fatto Satchmo di bene, con questo suo atteggiamento, alla diffusione e all’affermazione del jazz, non ha l’eguale- e, poi, anche per la sua voce roca, così poco canonica eppure intonata al pari del suo strumento. Invece quella era la sua “cifra”, il carattere distintivo che gli ha permesso duetti meravigliosi con artisti dotati, al contrario, di voce limpida. Basta citarne due: “That’s jazz” con Bing Crosby in “High Society”, in cui il calore di Satchmo e l’elegante compostezza british di Bing si sposano per generare swing all’ennesima potenza,

That’s Jazz

e “Summertime” con Ella Fitzgerald, l’usignolo. Un capolavoro costruito –ci scommetto- d’emblée, più con il cuore che con la testa. L’incipit, quella tromba che espone il tema sostenuta delicatamente dagli archi, commuove nell’intimo.

Summertime

Sempre per restare sul versante pop, quello meno apprezzato dai cosiddetti puristi, impossibile non ricordare due canzoni che sono entrate nell’immaginario collettivo e lì resteranno per sempre: “We have all the time in the world” e “What a wonderful world”.

We have all the time in the world

What a wonderful world

In queste due melodie c’è tutto l’amore di Satchmo per la vita, lui che per nascita avrebbe potuto fare una pessima fine, ma che tutto dalla vita ha avuto grazie al talento e alle circostanze, e che, generoso, ha spesso restituito, al massimo delle proprie possibilità, ai meno fortunati.

Ce lo siamo goduto anche noi il ragazzo fortunato di James Alley, il vicolo di Back of Town, nella manifestazione nostrana che più pop non si può.

Al Festival di Sanremo del 1968, accompagnato dal gruppo di Hengel Gualdi, clarinettista molto caro a Pupi Avati, era in gara con “Mi va di cantare”, un motivetto dixie, una sorta di omaggio alle sue radici con il testo italiano su di un foglio messo lì davanti, per terra, che costrinse Louis a cantare quasi sempre a occhi bassi.

Mi va di cantare

Gli avessero ben spiegato o meno le regole della manifestazione, avesse capito oppure no, fatto sta che Armstrong credeva di poter restare sul palco a suo piacimento e si apprestava, visibilmente, a una lunga esibizione che sarebbe stata di certo godibile, quando fu bruscamente interrotto dall’esordiente Pippo Baudo, ligio alla regola dei tre minuti circa a canzone. Non è dato sapere se abbia poi capito e accettato quell’intromissione, sicuramente vissuta come indebita. Sapendo della sua generosità, presumiamo di sì.

Mi permetto di chiudere con una piccola notazione autobiografica.  Nel 1971 avevo appena cominciato a lavorare alla radio. La mattina del 6 luglio, quando è giunta la notizia dell’improvvisa scomparsa di Satchmo, la direzione ha deciso di cambiare il palinsesto e inserire uno “speciale” commemorativo, preparato in fetta e furia da Adriano Mazzoletti con la mia collaborazione.

Ho avuto, sia pur nel dispiacere, l’onore del microfono per dare la notizia agli ascoltatori – che, in quei tempi di monopolio radiotelevisivo e di assenza di tv mattutina, erano milioni- ed è anche per questo che sono legato a Louis Armstrong, il musicista jazz che più di ogni altro ha contribuito, con la propria arte e disponibilità, a rendere universalmente apprezzato un genere altrimenti destinato, con ogni probabilità, a rimanere d’élite.

(fine della seconda e ultima puntata)

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