“Donne, vita, libertà”

Il grido di libertà delle donne iraniane, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne,
diventa globale

Giovanna Sellaroli

“Zan, zendegi, azadi”, “Donna, vita, libertà” è lo slogan gridato da migliaia di manifestanti iraniane in risposta alla dura repressione messa in atto dalla Repubblica islamica, un regime liberticida che per reprimere le proteste che da due mesi animano il Paese, sta usando il pugno di ferro. Violenze, repressioni di piazza nel sangue , tentativi di censura sui social e, come se non fosse abbastanza, le forze di polizia stanno utilizzando anche un’arma più subdola e ignobile, la violenza sessuale.

A svelare queste atrocità, un lungo reportage della CNN, che ha raccolto testimonianze da brividi in Iran fra le cittadine che sono riuscite a uscire dalle prigioni, dove stupri e maltrattamenti sono la consuetudine; in alcuni casi, lo stupro è stato persino filmato e usato come strumento di minaccia. A ulteriore conferma, emergono le testimonianze coraggiose di parte del personale medico che ha visitato e curato alcune delle vittime.

Quando è entrata per la prima volta, gli ufficiali hanno detto che aveva un’emorragia a causa di ripetuti stupri. Gli uomini in borghese hanno insistito affinché il medico scrivesse che la violenza era avvenuta prima dell’arresto”, racconta un membro dello staff dell’ospedale. “Quando la verità è diventata evidente a tutti, hanno cambiato l’intero copione. Per farla breve, hanno combinato un casino. Hanno fatto un casino e non sanno come rimetterlo insieme” … “Si sentiva così male che pensavamo avesse il cancro” ha aggiunto uno dei medici.

Questo è uno tra i tanti racconti agghiaccianti riportati nel reportage della CNN.

Mi scuso per questo attacco duro, ma non dimentico di essere fondamentalmente una cronista prima di tutto, il cui dovere è quello di raccontare e mettere in fila i fatti e le notizie.  E in questa giornata che ritengo non debba essere di mera celebrazione, ma di denuncia, ambisco a mettere l’accento più che sulla donna che subisce violenza, su chi opera quella violenza. Nel caso dell’Iran sui ridicoli, anacronistici violenti uomini del regime, sulla polizia morale e sull’intero sistema di oppressione che ha dominato l’Iran per oltre 4 decenni dopo la rivoluzione di Khomeini.

Dal ratto delle Sabine ai giorni nostri, la violenza sessuale, intesa come stupro ma anche come matrimoni, gravidanze e sterilizzazioni forzate, è uno stratagemma immancabile in tutte le tipologie di conflitti.

Dagli stupri di regime agli stupri di guerra il passo è brevissimo. Dal bollettino di guerra che arriva dalla martoriata Ucraina è notizia certa che “In Ucraina i russi stanno usando gli stupri come “strategia militare” e come “tattica deliberata per disumanizzare le vittimeci sono state violenze su ragazzine, stupri di gruppo avvenuti negli scantinati delle zone occupate durati giorni e violenze sessuali avvenute anche tra le fila delle forze ucraine”, ha detto Pramila Patten la rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulle violenze sessuali nei conflitti. “È molto complicato avere statistiche affidabili durante un conflitto attivo e le cifre non rispecchieranno mai la realtà, perché la violenza sessuale è un crimine silenzioso, il meno denunciato e il meno condannato”, ha aggiunto specificando che “i casi segnalati sono solo la punta dell’iceberg“.

Protesta delle donne ucraina contro gli stupri

Ai crimini silenziosi di colui che ha portato la guerra in Ucraina se ne aggiunge anche un altro, sicuramente meno eclatante, ma egualmente odioso a mio avviso. È notizia di queste ore che Vladimir Putin non ha ricevuto le madri dei soldati russi mandati al fronte in Ucraina, praticamente carne da cannone, evitando il confronto. “Siamo qui, pronte a incontrarla. Stiamo aspettando la sua risposta. O continuerà a nascondersi?” ha dichiarato Olga Tsukanova, Presidente del Consiglio delle mogli e delle madri, in un video pubblicato su Telegram. Negare a una madre notizie e rassicurazioni circa la vita del proprio figlio è pura violenza.

Mamme di soldati russi contro la guerra

È passato più di un anno dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan. Un anno terribile, violento, all’insegna delle violazioni dei diritti umani. Dal 15 agosto 2021 l’erosione dei diritti non si è mai fermata e per alcune persone le cose sono state più dure che per altre: le donne e le ragazze afgane non possono più studiare, lavorare o più semplicemente uscire di casa senza la supervisione di un uomo.

Sono nata in un Paese in cui essere donne è un reato. Il governo talebano è criminale. Ci hanno tolto diritti e libertà. Oggi una bambina di tredici anni, se considerata bella, viene data in sposa a un capo talebano. Se i genitori rifiutano, vengono uccisi. Le donne non possono uscire se non accompagnate da un uomo di famiglia e coperte dalla testa ai piedi” racconta Parwin, 26 anni, attivista dei diritti delle donne e oppositrice al governo dei talebani. “Oggi” sottolinea Parwin “si parla solo della guerra in Ucraina e delle battaglie in Iran, siamo solidali con le proteste ma la tragedia afghana è coperta dal silenzio. Eppure nella nostra terra le donne vengono perseguitate, violentate e uccise. Io stessa ho dovuto cambiare Paese per non essere uccisa. Noi rifugiate siamo preoccupate per le nostre famiglie rimaste in Afghanistan, per le nostre sorelle che non sono riuscite a fuggire come noi. Chiediamo al resto del mondo di essere la loro voce». (NdR. Intervista di Tea Sisto, Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia).

Il dramma delle donne afghane

Dall’Iran, all’Ucraina, all’Afghanistan all’Etiopia in molte aree del mondo, specialmente in situazioni di conflitto armato e di emergenze, donne, ragazze e bambine continuano ad essere vittime di discriminazioni, violenze, abusi e sfruttamento. Quella in Etiopia sembra una guerra dimenticata. Le organizzazioni umanitarie rimaste sul territorio denunciano una scarsa attenzione dei governi internazionali nelle regioni del Tigray, Amhara e Afar, dove non si possono neanche raccontare le violenze subite. Le vittime di violenze sessuali sono usate come parte di una deliberata strategia per terrorizzare, degradare e umiliare una categoria in base al genere ma anche perché appartenenti a un gruppo etnico minoritario. La guerra civile in Etiopia registra violazioni massicce e sistematiche dei diritti umani dal novembre del 2020, quando le truppe ribelli di Addis Abeba, con l’appoggio delle forze eritree e delle milizie Ahmara, hanno attaccato la regione del Tigray.

Qualsiasi conflitto o guerra civile ha delle forti ripercussioni sulla popolazione in generale, ma in particolare sulle donne. Lo sanno bene le siriane, vittime di una guerra civile catastrofica che dura da oltre un decennio. Molte donne non sanno dove si trovino i loro padri, mariti, fratelli e figli. Oggi le donne in Siria sono rimaste senza potere né protezione, né cure; si stima che circa 7,3 milioni di donne e ragazze necessitano di servizi essenziali di assistenza medica ginecologica e ostetrica. Risultano essere prive di sostegno contro la violenza di genere, poiché la loro esposizione a molteplici forme di violenza fisica e sessuale, oltre che ai matrimoni precoci in età ancora infantile, continua ad aumentare.

Proprio in questi giorni, nel nostro Paese si stanno riesumando i resti di un corpo che potrebbe essere quello della giovanissima Saman Abbas, la diciottenne pakistana scomparsa nella notte del 30 aprile 2021, dopo essersi opposta a un matrimonio combinato con un cugino in patria, deciso dai familiari. Accusato di omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere in concorso con altri, il padre Shabbar.

Saman Abbas e il padre Shabbar

Secondo l’Unicef oggi in tutto il mondo, oltre 650 milioni di donne e ragazze sono state sposate quando erano ancora minorenni. Se nel caso della povera Saman che sognava un futuro con il fidanzato che lei aveva osato scegliersi, si è trattato di un matrimonio combinato, un’altra tipologia fortemente violenta è quella del matrimonio forzato, ossia l’orrenda pratica delle spose bambine. Creature strappate all’infanzia e date in pasto a uomini che potrebbero essere persino i nonni. Un abominio che ruba l’infanzia, e spesso la vita a milioni di bambine.

Come le mutilazioni genitali femminili, un’altra gravissima violazione dei diritti umani.

Si tratta di una pratica il cui scopo dovrebbe essere preservare la “purezza” della donna; la subiscono infatti giovani donne prima del matrimonio. In molti casi, a subire le MGF sono anche ragazzine o addirittura bambine. Vengono praticate, principalmente in Africa, in Medio Oriente e in Asia. Va comunque considerato un fenomeno globale, in quanto le migrazioni portano questa pratica a diffondersi. In Italia, anche se le MGF sono vietate, bambine e donne migranti sono comunque sottoposte al rischio quando tornano nei loro Paesi d’origine in occasione delle festività.

E potrei continuare all’infinito.

Tradizioni medievali frutto di profonda ignoranza, guerre, fame, stupri, violenze, prevaricazioni di ogni sorta toccano le donne a tutte le latitudini del mondo. La violenza contro le donne è un fenomeno molto complesso e come recita l’art. 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite, approvata nel 1993, la violenza sulle donne comprende “ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.

Il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per proteggere le donne da qualsiasi forma di violenza e perseguire i trasgressori è la Convenzione di Istanbul, che introduce il riconoscimento della violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione.

Convenzione di Istanbul

Un trattato importantissimo che però ancora fatica a essere riconosciuto anche da alcuni stati membri dell’Unione europea che non l’hanno ancora ratificata: Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Slovacchia.

Fuori dell’Ue, paesi come Regno Unito, Moldova e Ucraina, pur nel pieno di una guerra, l’hanno ratificata nel 2022. La Turchia è l’unico paese che si è ritirato dalla Convenzione, è facile capirne il motivo.

Sempre secondo la definizione della convenzione di Istanbul, il femminicidio si riferisce invece in maniera più specifica alle «donne uccise in quanto donne, o perché non sono le donne che la società vorrebbe che fossero».

Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite mostra che 45 mila donne e ragazze – più della metà (56%) delle 81.100 vittime di omicidi lo scorso anno in tutto il mondo, sono state uccise dal marito, partner o altro parente. Lo riporta il Guardian. UN Women e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine hanno affermato che le cifre sono “allarmanti”, ma è probabile che il numero reale di femminicidi sia molto più alto.

In Italia, dal rapporto dell’Istat, Istituto nazionale di statistica sui dati sulle vittime di omicidio nell’anno 2021, pubblicato oggi, emerge che “le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019). 

Quasi tutte  sono uccise da mariti, ex mariti, compagni o ex compagni. 

Donne uccise da uomini che non accettano il loro modo di essere donne, e non semplicemente una generica uccisione di una donna per mano di chiunque.

Molti accadimenti avvenuti negli ultimi mesi in varie parti del pianeta, devono farci riflettere su come sia impervia la strada da percorrere ancora verso l’eliminazione della violenza contro le donne. Basti pensare solo alla scandalosa nonché eclatante decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di abolire a giugno 2022 la storica sentenza Roe v. Wade, demandando a ciascuno Stato la competenza di decidere come regolamentare l’interruzione di gravidanza e ponendo fine di fatto alla tutela del diritto all’aborto a livello federale.

Manifestazioni presso la Corte Suprema degli Stati Uniti

Una scelta che ha provocato un’ondata di proteste in tutto il Paese che certamente ha influito anche sulle elezioni di metà mandato dell’8 novembre scorso: l’onda rossa repubblicana che alcuni prevedevano non c’è stata, Trump è stato punito.

Proteste che sono dilagate in tutta l’America latina, portando la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza prima in Argentina, poi in Messico e per finire in Colombia, stati in cui abortire era considerato un reato.

Diritti e violenza, due termini che esplicitano campi completamente diversi, ma che sono consequenziali.

La parola “diritti” indica un insieme di libertà e prerogative che dovrebbero essere riconosciute a qualunque individuo. Ma spesso non è così. Specialmente per le donne.

La violenza, che può assumere diverse forme e manifestarsi sia a livello fisico che psicologico, nega sempre e in tutte le sue forme, il diritto della donna, il diritto all’eguaglianza e alla libertà.

Per seguirci su Facebook mettete il “mi piace” sulla pagina La Voce News o iscrivetevi al gruppo lavocenews.it. Contatti: direttore@lavocenews.it o info@lavocenews.it. Grazie.