Addio Gianni Minà

L’uomo delle interviste, maestro di una professione oramai perduta. Oggi la camera ardente in Campidoglio

Giovanna Sellaroli

Cartellina in una mano e microfono nell’altra, sguardo al mondo e occhi alla persona, Gianni Minà li ha intervistati tutti: Fidel Castro, il Comandante Marcos, Muhammad Ali e i Beatles. Ma anche Luis Sepúlveda e Robert Redford, passando per Robert De Niro. Famoso il suo rapporto privilegiato con Diego Armando Maradona, le cene e le interviste con Sergio Leone, Gabriel García Márquez e ancora interviste al Dalai Lama, Enzo Ferrari, Franco Battiato, Pino Daniele, Massimo Troisi, Pietro Mennea, Michel Platini e tanti, tanti altri.

Gianni Minà, Robert De Niro, Cassius Clay, Sergio Leone e Gabriel Garcia Marquez

Una “invidiabile agendina” la definì Massimo Troisi nella storica intervista di Gianni Minà nel programma Alta classe su Rai 1 nel 1992. Invitato per festeggiare l’amico Pino Daniele, Troisi trasformò, come suo solito l’intervento in una boutade memorabile: “Cosa invidio a Minà? La sua agendina. Lui ha il numero di Fidel Castro ed è registrato semplicemente come Fidel. E quando Minà lo chiama, non attacca ma risponde”. “Pino Daniele ha detto a Minà di chiamarmi…. E lui ha sfogliato l’agendina: Fidel Castro, Little Tony, Toquinho, Troisi. E mi ha chiamato”!

Gianni Minà e Massimo Troisi

Se n’è andato a 84 anni Gianni Minà e con lui se n’è andato anche un modo di fare giornalismo che non esiste più. Oggi la camera ardente in Campidoglio, i funerali si terranno in forma privata. Il suo possente lavoro, gli incontri mitici, quella tanto invidiata ed eccezionale “agendina” con i numeri telefonici, non andranno perduti. Come lui stesso aveva voluto, niente andrà perduto e sarà custodito nella Fondazione Gianni Minà nata nel gennaio scorso.

“Il giornalista è un pochino vanitoso, perché deve raccontare cose che vorrebbe vivere lui” la sua massima, quella di un professionista dotato di una grande intelligenza emotiva, che ha passato l’esistenza, intervista dopo intervista, a raccontare le vite altrui.

Vite raccontate con tatto e con una delle abilità umane più invisibili, l’empatia, en-pathos, il “sentire dentro”, l’esatto contrario dello scoop aggressivo, della notizia buttata in prima pagina, del pettegolezzo irritante. Ecco, Gianni Minà aveva la capacità di stabilire un rapporto profondamente empatico con l’intervistato.

Ma sapeva andare ben oltre, perché fra lui e il pubblico si instaurava un fil rouge carico di emozioni coinvolgenti, capaci di toccare le corde emozionali di intervistato, intervistatore e ascoltatore.

Io ho impressa nella mente la sua voce rotonda e vivace, incapace di urlare, e quella sua aria solo in apparenza dimessa, eppur ficcante, ma sempre accogliente; un grande affabulatore capace di passare dal sacro al profano con naturalezza e abilità uniche nel suo genere.

Ho fatto tutta la vita questo mestiere mettendo un gettone in un telefono, chiamando e parlando con la gente, sentendolo umanamente chi c’era dall’altra parte… Il giornalista mi deve raccontare quello che succede non giudicare… l’aggressività assoluta del giornalismo moderno è un’aggressività cretina perché non ne ricavi niente. Il segreto è conoscere bene la storia di quello che hai di fronte e non giudicarlo, fare in modo che lui si apra e da solo cominci a raccontarti cose che tu non speravi ti raccontasse; chi viene aggredito non ti risponderà mai con una cosa sensata, non ti racconterà mai niente” (ndr. intervista rilasciata a Fanpage nel 2016).

Gianni Minà e Fidel Castro

Ecco perché di tanti personaggi grandissimi era amico per davvero. Come era accaduto per Diego Armando Maradona, il Pibe de Oro, il ragazzo del sobborgo di Villa Fiorito di Lanùs, in Argentina, genio e sregolatezza, il più grande calciatore di tutti i tempi, (come lo aveva definito) e del quale Gianni Minà ha saputo pienamente cogliere l’essenza. Tante interviste a Maradona, ma una fra tutte, tra le prime, è quella storica persino nella location, realizzata sulla collina di Posillipo, l’altra Napoli, dove dall’alto si vedeva l’impianto siderurgico dell’Italsider di Bagnoli.

Gianni Minà e Diego Armando Maradona

“E questa è Napoli, la Napoli che lavora, questa è l’Italsider, la Napoli dei problemi e tu sei riuscito ad entrare nel ventre di questa città come se fossi nato qua, sei uno di loro?”. E Diego risponde: “Qui non c’è un equilibrio. Ti amano oppure sicuramente ti ammazzano, parlo in termini calcistici. Fai un gol ed è il migliore del mondo, sbagli un gol e allora che fai non si può sbagliare, non sei un campione, non sei un fuoriclasse. Io alla gente di Napoli la ringrazio per tutto ciò che fa per Maradona”. E ancora Minà: “Che cosa hai capito di questa città, dopo due anni che ci abiti?”. E Maradona: “Ho capito che hanno tanti problemi e Maradona non dà soluzioni alla città. Maradona fa di tutto perché il Napoli sia un più grande ogni giorno. Questa è la felicità che Maradona dà al napoletano”.

Ecco, la narrazione tra sogno e disincanto bypassa il mero dato sportivo sugli obiettivi della stagione calcistica, sulla squadra, sul talento, sull’arbitraggio, ma va dritta all’uomo Maradona, al ‘guaglione’ che, pur arrivando dall’altra parte del mondo, è uno di loro, in sintonia con la gente di Napoli. Il sud del mondo parla la stessa lingua del sud dell’altra faccia del pianeta.

Anni dopo Minà racconterà che aveva assistito agli incontri di Diego con gli psicanalisti quando questi aveva deciso di uscire dal tunnel della droga, ma quelle situazioni non le ha mai rese pubbliche: “Aumentano solo la morbosità ma non c’è la notizia” ha affermato, aggiungendo: “…Non l’ho mai giudicato, mi sentirei offeso io a giudicare la sua vita”.

Gianni Minà abbraccia Maradona

Minà nacque come cronista sportivo in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, poi si formò alla scuola di Barendson con quel gruppetto di giornalisti che negli anni Sessanta si occupavano di sport allargando gli orizzonti e i confini dell’argomento, che fino ad allora erano stati definiti e ristretti. Lo sport era uno degli elementi che si univa nei loro lavori con la politica, la letteratura, il cinema, la musica.

Un altro mondo. E tutt’altra sensibilità narrativa.

Dalla trasmissione Alta classe, dove parlava di una serie di profili di grandi artisti come Ray Charles, Pino Daniele, Massimo Troisi e Chico Buarque de Hollanda, più avanti è approdato anche al timone de La domenica sportiva e ideato il programma di approfondimento Zona Cesarini.

Nel 1976 venne assunto al Tg2 diretto da Andrea Barbato. Nel 1981 vinse il “Premio Saint Vincent” in qualità di miglior giornalista televisivo dell’anno. Dopo aver collaborato con Giovanni Minoli a Mixer, debuttò come conduttore di Blitz, programma di Raidue di cui fu anche autore, accogliendo ospiti come Eduardo De Filippo, Federico Fellini, Jane Fonda, Enzo Ferrari, Gabriel García Márquez e Muhammad Ali sul quale scrisse anche un libro.

la stagione di Blitz

Sbarazzandosi di una parte di sé per metterla o proiettarla al servizio dell’altro, con il microfono in mano, Gianni Minà è riuscito a entrare nella parte più recondita di figure che hanno catturato l’attenzione mondiale e che in lui hanno percepito di trovare un narratore affidabile e partecipe. Personaggi non comuni, ma che in larga parte non erano solo sportivi, campioni di fama, ma persone spesso impegnate in battaglie personali o pubbliche che andavano ben oltre lo sport o lo spettacolo.

Era riuscito a stanare la diffidenza di Platini, per esempio, che è riuscito a raccontargli dello stress di un calcio che pressa con l’obbligo della vittoria, sempre.

E così con campioni ‘complessi’ come Marco Pantani o Roberto Baggio. O personaggi quali Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber, Federico Fellini, solo per ricordarne alcuni.

Fra le sue innumerevoli passioni spiccavano la boxe e la musica. La nobile arte lo portava tra i “danzatori tristi”, come amava definire gli sconfitti. Il quadrato, quello del ring, lo ha sempre osservato come metafora dell’esistenza dove era anche possibile sfuggire alle sconfitte della vita.

Il mio Alì, Gianni Minà

La musica lo appassionava perché arriva dritta al cuore di chi sa ascoltare; col suo potere magico consente di raccontare storie tristi o allegre, ma sempre di vita vissuta.

Le frasi interessanti, le parole più vere, il viso delle persone, si mostrano a luci spente. Quello che accade in superficie lo vedono tutti, non c’è quasi niente da raccontare. È sotto la punta dell’iceberg che bisogna mettere la testa”, scrive in Storia di un Boxeur latino

Ci lascia un grande giornalista, curioso e gentile, come lo  ricorda Renzo Arbore; nel suo storico programma L’altra Domenica, che ha debuttato il 28 marzo 1976, c’era Minà con Charles Mingus, uno dei più grandi musicisti della storia della musica, che parlava di jazz.

Sapeva sempre scegliere quali battaglie combattere, quali cause abbracciare, a quali voci dare risonanza, diceva di sapersi guadagnare la fiducia delle persone. Ha ragione Arbore quando lo definisce gentile, ma non solo.

Rispetto dei ruoli e poi dei titoli, rispetto per la persona, in questo è racchiuso il carico di umanità, di civiltà, di cultura e di competenze di cui Gianni Minà ha fatto tesoro. E ciò che lascia è proprio un tesoro di narrazioni e di immagini che sono già la storia del giornalismo e che considero patrimonio dell’umanità.

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