Verifica di governo: oggi Pd e M5S

Le frizioni interne alla maggioranza, inevitabili quando c’è in ballo una somma come quella disponibile grazie al Recovery fund.

GP

Questa maggioranza è nata in maniera abbastanza fortuita. C’era un governo, il cosiddetto giallo verde, che vedeva il M5S, primo partito all’epoca, grazie al recente successo nelle urne, con la Lega, terzo partito per parlamentari. Il M5S aveva categoricamente escluso di allearsi con Pd che nelle urne era risultato secondo. I due alleati s’inventarono “il contratto di governo”, quasi che governare un Paese sia un patto scritto tra privati. Furono disegnate strategie generali e progetti particolari da conseguire e la prima armata Brancaleone di questa legislatura partì festosamente mettendo insieme due soggetti dai programmi elettorali totalmente diversi, ma accomunati principalmente dall’essere partiti più di opposizione e di critica che di governo. La Lega, ai tempi di Bossi, nei governi Berlusconi c’era stata ma con ruoli molto marginali, quanto ai pentastellati esperienza di governo zero. Man mano che si andò avanti la Lega di Matteo Salvini, molto più organizzata e scafata, cominciò a rosicchiare consenso elettorale, suffragato dai vari sondaggi. Il Movimento 5 Stelle aveva espresso il Premier, Giuseppe Conte, ma la Lega col suo “capitano” Salvini si destreggiava nella comunicazione divenendo presto nell’immaginario collettivo il partito propulsore delle riforme. Quella volute dai pentastellati passavano sotto silenzio. Arrivarono le elezioni europee e la Lega raddoppiò i suoi consensi, non più testimoniati da sondaggi, ma certificati dalle urne. L’equilibrio nel parlamento nazionale rimaneva invariato, le elezioni europee erano altra cosa dal parlamento nazionale, ma la Lega avviò una campagna di continua delegittimazione del collega di governo, accusato un giorno sì e l’altro pure di frenare le riforme, di aver messo al governo ministri incapaci ed incompetenti.

Salvini, non proprio avvezzo alle procedure parlamentari, alla fine di questo tira e molla aprì la crisi di governo “con l’intento dichiarato di monetizzare il successo elettorale europeo”. Ricordiamo tutti la ricostruzione che ne fece il Premier Conte in parlamento, il j’accuse nei confronti del Ministro dell’Interno Salvini, che non negò la sua intenzione di portare rapidamente il Paese anticipatamente alle urne, giustificando tale necessità con i continui freni all’azione del governo da parte dei pentastellati, che da ultimo invero una colpa avevano ed era quella di assecondare l’alleato in tutte le sue richieste.

Tutto si aspettava Salvini, dimettendosi da Ministro dell’Interno e facendo dimettere la sua squadra a Palazzo Chigi, fuorché che la legislatura potesse andare avanti ugualmente anche senza la Lega. Improvvisamente, mentre invocava per se stesso, “premier in pectore”, i pieni poteri riscopriva l’amore per quella destra con la quale si era presentato alle politiche e che aveva scaricato per allearsi coi pentastellati ed occupare posti di rilievo a Palazzo Chigi.

Le invocazione della nuova alleanza di destra, dominata da Lega e Fratelli d’Italia, con Forza Italia al lumicino, di nuove elezioni immediate, perchè il parlamento non rappresentava a loro giudizio la maggioranza del Paese, caddero nel vuoto. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella fece quanto la Costituzione gli impone e la prassi parlamentare consolida, cioè diede vita alla ricerca in parlamento di una nuova maggioranza.

Nacque così il Conte II o bis, che dir si voglia. Al Governo coi pentastellati, l’odiato Pd e la Sinistra Italiana. Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, una fronda nel Pd nascerà mesi dopo e non comporterà alterazioni di maggioranza perchè da subito entra nel governo a pieno titolo. La maggioranza ha anche l’appoggio esterne di +Europa e dei Verdi.

Il centrodestra o, per meglio dire, la destra gli preconizzò vita brevissima, dal momento che nasceva in chiave anti Salvini, con il solo scopo di impedirgli di far votare nuovamente gli italiani, ma in realtà nasce per non far finire anticipatamente la legislatura, motivazione assolutamente lecita, anzi doverosa.

Oggettivamente le trattative col Pd e la Sinistra non furono semplici. Difficile mettere insieme partiti con storie e vocazioni così diverse, anche perchè alcuni pentastellati ascoltavano molto attentamente il richiamo delle sirene della Lega, che prometteva mari e monti a chi fosse migrato nel partito di Salvini. Paragone “docet”.

Sta di fatto che il Conte bis, il giallo-rosso, al momento, nonostante l’eredità di un Paese con un debito pubblico stellare ed una pandemia tremenda da contrastare, ha tenuto per ora già più tempo del giallo verde. Non tutte sono state rose, difficile far digerire ai pentastellati che le norme approvate con Salvini e volute dallo stesso, a partire da quelle sulla chiusura dei porti agli emigrati, dovevano essere riviste. Va dato atto al Pd di aver agito con paziente moderazione nell’opera di convincimento dell’alleato, Stessa cosa per la Sinistra Italiana-Leu, che ha agito sempre con estrema moderazione.

A complicare le cose si è verificata una fronda nel Pd voluta da Renzi ed i suoi fedelissimi, ma che fin dal primo momento ha confermato il suo appoggio alla maggioranza, entrando poco dopo nel governo con ministri espressi da partito di Renzi.

Non era difficile prevedere che la predisposizione di una prima bozza di suddivisione dei 209 miliardi, messi a disposizione del Paese dal Recovery fund, sulla quale si è verificata la non pacifica convergenza dei 27 capi di stato europei dovesse suscitare una qualche maretta tra gli alleati di governo. Diversità di vedute non solo sulla prima attribuzione dei fondi (i nove miliardi alla sanità sono apparsi, giustamente, poca cosa) ma sulla previsione della cabina di regia come disegnata in quella bozza.

Sergio Mattarella, a fronte delle tensioni nella maggioranza e della minacce di far cadere il governo, è intervenuto con decisione: non ci sarà un terzo governo. Se questa maggioranza non tiene non c’è alternativa alle urne. Matteo Renzi è l’unico che da quell’orecchio pare non sentire e continua a parlare di possibili maggioranze diverse. Scorda che l’arbitro e sempre e solo, Costituzione alla mano, il Presidente della Repubblica che ha sì il dovere di cercare di portare la legislatura a compimento, ma che ove ritenesse che per il Paese occorre un governo stabile e coeso, uscito dalle urne, avrebbe il potere dovere di sciogliere le camere ed indire le elezioni.

In questo quadro s’inseriscono le precisazioni recenti di Conte che ha tenuto a chiarire un grossolano equivoco: le decisioni sul Recovery fund non possono che passare dal Parlamento ed essere frutto di condivisioni le più ampie possibili, anche oltre i confini della maggioranza di governo e di chi assicura l’appoggio esterno. Cabine di regie ed altri organismi indicati nella bozza sono solo strumenti negoziabili di verifica e coordinamento della spesa, perché senza strumenti adeguati di controllo rischia di essere persa. Oggi i primi incontri a Palazzo Chigi. Si è cominciato con la delegazione dei pentastellati composta dal capo politico Vito Crimi, dal capodelegazione Alfonso Bonafede, dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dal ministro per lo Sviluppo Economico Stefano Patuanelli e dai capigruppo alla Camera e al Senato Davide Crippa e Ettore Licheri. Alle 19 toccherà al Pd. Domani alle 13 sarà la volta d’Italia Viva, che sarà guidata da Matteo Renzi.

Ma il virus non si ferma per cui a Palazzo Chigi si è tenuta una riunione che ha visto presente il premier, i ministri Boccia, Lamorgese, D’Incà, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Fraccaro, i capidelegazione di maggioranza e il Comitato tecnico scientifico per valutare ulteriori restrizioni nel periodo natalizio.

A margine di tutto questo è arrivata la precisazione del commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni secondo il quale i primi acconti sul Recovery fund, pari al 10% dell’importo complessivo stanziato dall’Ue, non potranno arrivare prima della tarda primavera, inizio estate. Per gli attenti osservatori non è una novità, per gli altri una doccia fredda che riapre la discussione sul Mes su cui l momento si registra un qualche accordo in maggioranza ma solo sulla riforma delle norme europee, quanto a richiederlo da parte del nostro Paese è tutta un altro racconto.

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