Art Tatum

Il Genio domina lo strumento. Terzo articolo delle “pietre miliari” a cura di Antonio De Robertis, “la voce della Radio”..

Antonio de Robertis

Prima di procedere, vi suggerisco di ascoltare

Élégie

Potreste mai immaginare che un pianista jazz possa scegliere una romanza da salotto (in questo caso, “Élégie” di Jules Massenet) come brano di apertura di un disco, rispettandone la natura ma iniettando nelle note una linfa inequivocabilmente swinging? No, certamente! questo, però, prima di Art Tatum. Dopo di lui, il diluvio. Una pioggia benefica dalla quale i pianisti si sono ben guardati dal ripararsi. Anzi, hanno fatto di tutto per impregnarsene fino alle ossa, nella speranza che potesse trasmettere loro anche solo una minima parte dell’arte di Art Tatum.

Nato nel 1909 (o ’10 – sulla data non vi è certezza) con un grave difetto visivo che non gli consentì, fino alla morte giunta troppo presto, nel 1956, Tatum è stato ricompensato dalla natura con un talento smisurato.

I musicisti dicevano di lui che era out of this world. Quando entrava in un locale il pianista di turno quasi sempre si interrompeva e gli cedeva il posto. Suonava a orecchio e aveva acquisito padronanza assoluta dello strumento e fantasia sfrenata fin da quando era ancora un bambino. Era capace di stare alla tastiera anche per due giorni filati, interrompendosi raramente per bere o per un breve sonnellino.

Le testimonianze dei musicisti che hanno lavorato con lui ci dicono dell’estrema difficoltà di seguirlo, perché all’improvviso usciva dalla linea degli accordi prestabiliti e si scatenava in improvvisi e ripetuti cambi di tempo e di tonalità. Per non dire di quando e quante volte spezzava il ritmo e modificava le armonie. Insomma, stargli dietro era un’impresa titanica; ed è per questo che la gran parte del “patrimonio Tatum” è composto da registrazioni per piano solo.

Su Art Tatum ci sarebbe da scrivere un trattato, ma bisognerebbe avere una padronanza della materia musicale che non mi appartiene. Non sono un musicista, non so leggere le note. La musica la “sento” e posso soltanto parlare delle emozioni che provo ascoltandola, che sono soltanto mie e, magari, non canoniche o rispondenti a criteri oggettivi. La musica di Tatum mi fa pensare al genio inarrivabile, al caposcuola che diventa punto di riferimento per tutti e per ere geologiche: il modello da imitare che ti mette costantemente di fronte ai tuoi limiti. A quel punto, se o riesci a tenere a freno la frustrazione, oppure devi cambiare mestiere.

Per Leonard Feather, giornalista e pianista universalmente riconosciuto come uno dei più competenti critici jazz, Art Tatum è “il più grande improvvisatore della storia del jazz, a prescindere dallo strumento”. Una verità incontestabile.

Il lascito che meglio di ogni altro lo rappresenta, lo dobbiamo al produttore Norman Granz. Nel 1953 gli mise a disposizione uno studio di registrazione perché suonasse quel che voleva, senza limite di tempo. Risultato? Una session di quarantott’ore, settanta esecuzioni pubblicate dalla Pablo Records sotto il titolo “The Tatum Solo Masterpieces”.

È il non plus ultra della storia del pianismo jazz, infinita goduria per gli appassionati e manuale di riferimento per i musicisti. È altissimo il numero di quelli su cui Tatum ha esercitato il proprio influsso, con le meravigliose contro-melodie e l’eleganza impeccabile che costituisce la “cifra” del suo tocco magistrale.

L’ascolto vale più di mille parole e dunque, per chi volesse approfondire, qui c’è un “The Best” di 25 brani.

Fatti salvi i due modelli ai quali Art Tatum si era ispirato fin da giovanissimo, Fats Waller e Earl Hines, e la comunanza d’intenti con un altro maestro di stile come Erroll Garner, del quale avremo modo di parlare, è noto che Art Tatum godesse dell’ammirazione del compositore Serghei Rachmaninov, che lo considerava come “Il più grande pianista mai ascoltato” e dell’amicizia del pianista classico Vladimir Horowitz.

Classica e jazz: due mondi solo apparentemente lontani fra loro. In realtà, uniti sotto il segno della qualità, che colloca la musica in due semplici macro-categorie: la buona e la cattiva.

Erroll Garner, a sinistra, assieme  a Tatum, durante un’esibizione a quattro mani.

Ho potuto rintracciare una testimonianza di Rex Stewart, cornettista di Duke Ellington. “Al piano, Art sembrava divertirsi a creare dei problemi impossibili dal punto di vista armonico e della sequenza degli accordi. Poi si metteva a improvvisare lietamente una sequenza dopo l’altra, finché la frase si definiva come un’entità conclusa entro la struttura della composizione che stava suonando. Mi è capitato molte volte di vederlo avventurarsi a tutta velocità in quello che io temevo fosse un vinto vicolo cieco musicale, e poi uscirne con una soluzione folgorante. Tutto questo richiedeva una grande preparazione teorica, destrezza e audacia.”

In queste poche righe, c’è l’essenza del genio di Art Tatum. 

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