Louis Armstrong
Ovvero; il genio nasce dove meno te lo aspetti. Primo articolo delle “pietre miliari” a cura di Antonio De Robertis, “la voce della Radio”..
Antonio De Robertis

Premessa necessaria e non banale (credo): il jazz classico, quello che agli albori del Novecento si chiamava “jass”, è siciliano. Nell’ultimo tratto della sua vita, Nick La Rocca, generato a New Orleans, nel 1889, da una coppia di emigrati da Salaparuta e Poggioreale, ha dilapidato il proprio patrimonio di prestigio e popolarità ingaggiando una battaglia xenofoba e razzista al contrario, a difesa della primogenitura “bianca” del jazz contro il partito schierato per le sue origini afro americane; ma si deve a lui, leader della Original Dixieland Jazz Band l’incisione, nel 1917, del primo disco di jazz della storia. Senza Dominick la sua suggestione e la sua influenza, forse non avremmo avuto Bix Beiderbecke e Louis Armstrong, oggi considerati i capostipiti, bianco e nero, del jazz così come oggi lo conosciamo; e, forse, la cornetta e la tromba non sarebbero i due strumenti che meglio di ogni altro ne identificano il suono e lo spirito.
Fatta la premessa, veniamo al fatto.
Quattro agosto 1901.
In James Alley, la strada attorno alla quale gravitava Back of Town, il quartiere più povero di New Orleans, in una famiglia tutt’altro che solida, nasce un bambino. I genitori, che presto non saranno più tali, lo chiamano Louis. Cresce per strada in una sorta di campo di battaglia, abbandonato a se stesso come i suoi compagni di giochi, fra fannulloni, ladri, prostitute, sfruttatori, strozzini: il meglio del peggio del più completo campionario della delinquenza e del disagio. “Backatown”, dizione slang, era un quartiere dall’atmosfera, a dir poco, particolare, inserito in una città che lo era altrettanto: New Orleans, città portuale e perciò piena d’immigrati dai paesi più disparati. Armstrong – questo era il cognome del nostro Louis – crebbe in questo crogiuolo di culture.

All’inizio del secolo scorso a New Orleans ogni occasione era buona per organizzare una parata con tanto di banda di ottoni in testa. Era un modo per scacciare, ubriacandosi di allegria, il fantasma della miseria. Anche Satchmo, contrazione di “satchmouth” cioè, ancora una volta in slang, “bocca a sacco” -questo era il soprannome del nostro Louis – ancora bambino aveva una sua band, un quartetto vocale con il quale guadagnava qualche spicciolo cantando per le strade.
La famiglia dei Karnofskys, ebrei russi immigrati, prese Louis a lavorare nel loro carro per la raccolta dell’immondizia; così Louis poté comprarsi la prima cornetta.
Era comunque una vita grama. Per il giovanissimo Armstrong, un luogo rappresentò la salvezza: il riformatorio. Ci finì dopo essere stato arrestato perché, per festeggiare la fine di un anno nero e l’arrivo del nuovo, che si sperava potesse cambiare colore, sparò qualche colpo di pistola in aria. Tutto il mondo è paese, ma la legge è legge e anche il ragazzino Louis pagò il prezzo della bravata. Ma, dalla disavventura, ecco nascere la fortuna: Peter Davis, maestro di musica e direttore della band del riformatorio, gli insegna a suonare la tromba e, per primo, ne scopre il talento. Così, a soli quindici anni, Satchmo entra nell’orchestra di Kid Ory, sia pure come riserva del suo idolo, Joe “King” Oliver, il gigante surclassato da La Rocca grazie all’incisione del primo disco. È l’inizio di una carriera che, nell’arco di cinquantacinque anni, lo consacrerà quale genio innovatore della musica del Novecento.

Nel 1922 Oliver porta Armstrong con sé a Chicago, a suonare nella Creole Jazz Band al Lincoln Gardens.
È il periodo delle prime incisioni su cera. La prima in senso assoluto a racchiudere un assolo del grande, immenso Satchmo, baciato dalla fortuna anche dalla sua bocca a sacco che gli consentiva di imprimere una gran forza all’emissione del fiato, è Chimes Blues.
Contiene una di quelle escursioni fra le note che hanno reso Louis Armstrong il più importante strumentista di jazz tradizionale.
(fine della prima puntata)
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