Lettera di un emigrante alla moglie rimasta a casa

Testimonianze di ieri che oggi diventano preziose pagine di storia.

Rocco Michele Renna

Un vero oceano di carta in un mondo di ricordi, un viaggio nel tempo, ricordi preziosi belli e brutti di quando bastava un niente per essere felici, come testimoniano le commoventi lettere inviate negli anni quaranta-cinquanta ai familiari.

Recuperiamo dai cassetti, dai comò dei nonni e dalle impolverate scatole in cantina, centinaia di lettere e foto che raccontano la grande emigrazione, gli anni tristi della fuga alla ricerca di una terra promessa. Testimonianze di ieri che oggi diventano preziosi libri di storia.

Tra le tante lettere ho voluto comporre questa di un ipotetico emigrante, un insieme di tante lettere per farci capire cosa voleva dire emigrare e cosa vuol dire oggi, non a questi livelli, ma quando un figlio o un genitore emigra, un pezzo di noi muore con lui non potendolo seguire…

Ecco che scampanella il treno alla stazione di paese, si alza una nuvola di polvere… arriva il treno. “Povera terra mia che ti devo lasciare. Povera casa mia che fine farà? Come le bestie partiamo, per trovare lavoro e sistemazione.

Non c’è altra soluzione per far stare meglio la tua famiglia, devi lavorare e se il lavoro non c’è devi emigrare… tanto tempo fa si diceva: “O emigrante o brigante”. Ma quei tempi sono passati, solo la miseria non è passata. C’è chi parte per mare, per treno o con la corriera… Cafoni, ignoranti, analfabeti, gente di niente, attendono lo stesso destino.

“Il nostro cuore è rimasto sulla piazzola della stazione, non sono bastate tutte le lacrime del mondo per lavare la disperazione, la disperazione di lasciare la terra tua, la casa tua, la famiglia tua.

I parenti sul marciapiede vestiti di nero, più smarriti, spaventati e storditi di chi se ne va, assieme a un povero prete sporco e cafone come loro che piangendo li benedice: “La Madonna Vi accompagni”.

C’era chi teneva una mucca, una stalla, quattro palmi di terra, un albero da frutta, una casa … Ora tiene solo un biglietto e una lettera per il padrone.

Una volta arrivati alla dogana si apre la valigia di cartone, provoloni e salame mischiati nel fagotto alla frittata. Una parlata incerta, un sorriso spaurito, “siamo emigranti” …

“Quando sei emigrante, non sei più un uomo, sei carne da macello e ti devi scordare la lingua del tuo paese, devi imparare quella straniera per capire quando chiama il padrone”.

“My Lord”, padrone mio vuol dire, per loro siamo gente sporca ignorante e scostumata. Gente incivile, quasi negri, insensibili al rispetto dei giardini di lor signori. Per loro siamo gente infame, lesta di mano e pronta di coltello, gente di mafia, di mammasantissima. Orfani, vedove e sicari, gente feroce che spara, siamo buoni solo a pulire i cessi di lor signori.

Tra la folla qualcuno urla a gran voce: “Lasciateli sbarcare, lasciate che alzino i vostri grattacieli. Lasciate che scendano nelle vostre miniere, Meglio a loro il grisù che ai vostri bei ragazzi biondi forti ed educati. Lasciateli zappare il West, lasciateli impazzire alla catena di montaggio del vostro sempiterno automezzo…

Lasciateli venire, uno straccio di paga, un sottoscala per dormire, una zuppa di cavoli per sfamare la fabbrica dell’appetito.

Per un pugno di tornesi, per una branca di marchi o per una lurida manciata di lire, sono pronti a tutto. Lasciateli crepare nei luridi bordelli delle vostre Babilonie.

Teneteli lontani dai vostri lussuosi ristoranti. Se osano entrare nei vostri stadi, tenete pronti i mastini. Emigranti, canaglia con baffi, basette e brillantina, lasciateli marcire con tutta la marmaglia di emigranti del sud. È gente che vive per morire…”

Moglie mia questo è il mondo che aspetta noi emigranti, pensa tu alla casa e alla famiglia con questi tornesi che ti mando, non far mancare niente alla famiglia e per me non ti preoccupare, io mi accontento di pane e cipolla.

Dai un bacio da parte mia ai nostri bambini e di loro che papà viene presto, non si è scordato di voi…

Dedico questa lettera a tutti quelli che sono stati o ancora sono costretti a lasciare la propria famiglia per poterla mantenere, forse qualcuno riconoscerà qualche verso ma vi assicuro che è un emigrante di fantasia e la lettera alla famiglia è stata scritta con i tanti pensieri “veri” degli emigranti, anche in tono sgrammaticato, ma non troppo.

Forse per questo, qualcuno potrebbe riconoscere il suo. Se accadesse, avremmo piacere di ascoltare e scrivere della sua esperienza personale.

Immagine di emigrante con poesia in vernacolo lucano/napoletano basata su questi ricordi

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