DJANGO REINHARDT

Al genio bastano tre dite ed una chitarra. Per le Pietre Miliari di Antonio De Robertis.

Antonio de Robertis

Qualcuno forse si ricorda di Paese Sera, un quotidiano romano che usciva in edizione pomeridiana ed era molto popolare nella Capitale perché riservava notevole spazio agli spettacoli. Le pubblicazioni sono cessate nel 1994, ma l’episodio che sto per ricordare risale ai primi anni Settanta.
Una fotonotizia dava conto di un evento parigino durante il quale Stéphane Grappelli, violinista jazz naturalizzato francese ma figlio di nobile famiglia italiana originaria di Alatri, aveva ricevuto un premio dalle mani di Jeanne Moreau. Il redattore specificava che la serata si era conclusa con l’esibizione di Grappelli assieme al suo storico compagno di avventure musicali, il chitarrista Django Reinhardt, vissute col quintetto dell’Hot Club de France, una delle prime associazioni francesi a promuovere la musica jazz. Peccato che Django fosse già morto, dal 1953. Insomma, una topica clamorosa giustificata, dal capo servizio spettacoli, dal fatto che nel testo di accompagnamento della telefoto –che, purtroppo (testuale) era in francese- c’era un riferimento a Reinhardt mal interpretato. Stendiamo un velo pietoso sull’imbarazzante inadeguatezza dei protagonisti e concentriamoci sul fenomeno Django Reinhardt. Dipanare la matassa delle sue origini: nome, luogo di nascita, residenza, nazionalità… non è semplice. Era nato in Belgio, ma casualmente perché era un nomade di etnia sinti. Con i suoi viveva in carovana e questo spiega perché l’incidente che gli cambiò la vita (in meglio, paradossalmente), lo costrinse ad abbandonare il banjo per la chitarra e dette un colpo di acceleratore all’evoluzione tecnica dello strumento nel jazz, sia avvenuto a Parigi. Il fuoco che distrusse la roulotte di famiglia lo privò dell’uso della gamba destra e fece un tutt’uno dell’anulare e del mignolo della mano sinistra.


Ma Django aveva il talento, il sacro fuoco nelle vene e un amore sviscerato per lo strumento. Per questo inventò e sviluppò una tecnica tutta nuova, rivoluzionaria, che volse in positivo la sua menomazione. Ha influenzato quasi tutti quelli venuti dopo di lui; soprattutto Wes Montgomery, Jim Hall e Joe Pass e non per nulla questi tre rappresentano la massima espressione chitarristica della seconda metà del Novecento.

Django Reinhardt ed il suo figlio


Reinhardt è dunque un caposcuola, un virtuoso di levatura eccezionale. Analfabeta, capace solo di rilasciare autografi, come tutti gli autodidatti era dotato di una vastissima cultura musicale che spaziava dalla classica alla tradizione gitana ed è universalmente riconosciuto come il padre del jazz manouche.
In Francia, Manouches sono chiamati i sinti e il gipsy jazz sviluppato da Django è la massima espressione della loro tradizione musicale: melodie cadenzate, adatte soprattutto agli strumenti a corda. Ha uno swing interno tale da rendere “mosso” anche un “adagio” come Nuages di Debussy.

Nuages

Il fraseggio di Django Reinhardt, a prescindere dal ritmo, ha una certa grazia malinconica. Era un romantico passionale e solo così si spiega la tenacia messa in campo per superare la menomazione dei suoi diciotto anni. Secondo Leonard Feather “…è stato il primo musicista straniero a influenzare profondamente il jazz negli Stati Uniti”. Non per nulla, nel suo repertorio c’è anche un pezzo swing come Honeysuckle Rose, fra i più eseguiti dall’orchestra di Benny Goodman.

Honeysuckle Rose

Per chiudere, ecco il classico per antonomasia della “coppia di fatto” Grappelli – Reinhardt: La Mer. Qui, violino e chitarra si sostengono e si alternano nel ruolo di protagonista e l’affiatamento è perfetto. Il risultato? Eleganza e fascino.

La Mer

Poco dopo la morte di Reinhardt, Jean Cocteau scrisse: “È morto Django, uno degli spiriti più elevati del nostro tempo. Visse come chiunque desidererebbe vivere: da zingaro. Aveva l’animo del girovago e uno spirito elevato I ritmi di Django portavano la sua personalissima impronta. Visse chiuso in se stesso, staccato dal mondo e, purtroppo, il mondo finisce sempre con lo stroncare coloro che non vogliono far male a nessuno.
Quando cominciai, giovanissimo, a collezionare dischi di jazz, il primo fu un Tatum; subito dopo, rinunciando a sigarette e altre amenità, comprai i due Reinhardt che riproduco qui, pubblicati dalla mitica RCA Italiana con copertina cartonata (e meno male, altrimenti non avrebbe retto all’uso e all’abuso). Li conservo gelosamente, e non potrebbe essere altrimenti perché Django merita l’eternità.

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