Nel PD qualcuno è stufo di Conte?

Alcune posizioni troppo filo-sovraniste del premier non stanno piacendo ad una parte importante del PD. E il futuro di Conte non è più così saldo

Vito Longo

Alcune posizioni troppo filo-sovraniste del premier non stanno piacendo ad una parte importante del PD. E il futuro di Conte non è più così saldo.

La materia oggetto del contendere è stata l’approvazione, in Europa, di un MES senza condizioni, ossia la facoltà concessa agli stati membri di accedere a prestiti a tassi più che agevolati. Per l’Italia si tratterebbe di poter spendere circa 36 miliardi, il 2% del nostro PIL, senza fare ulteriore ricorso al deficit, per far fronte alle ingenti spese sanitarie causate dalla pandemia di Covid-19.

La posizione dell’Italia, a ragione, continua ad essere rivolta all’approvazione degli eurobond, ossia delle emissioni di debito pubblico, garantite da tutti gli stati, da destinare unicamente ad affrontare l’emergenza economica e sanitaria.

Come sappiamo, le posizioni sono abbastanza cristallizzate – anche se qualcosa pare si stia lentamente muovendo – ma è innegabile che già molto è stato ottenuto.

Dove nasce, allora, l’insofferenza di parte del PD verso il premier Giuseppe Conte?

Se non è un mistero che Italia Viva non ami particolarmente, per usare un eufemismo, il presidente del consiglio, nelle ultime ore sta nascendo un fronte silenzioso, interno al PD, in veste “anti-Conte”. Al momento il dissenso è tenuto sotto controllo, ma potrebbe anche esplodere se le cose dovessero precipitare.

Ad accendere lo scontro, ad ora ancora sommerso, sono state le dichiarazioni di Antonio Misiani sul MES. Il vice-ministro dell’Economia del PD ha dichiarato la ferma intenzione dell’Italia di non attingere al MES, puntando, piuttosto, al deficit interno (ossia ulteriore debito pubblico).

Le dichiarazioni del vice-ministro hanno indispettito alcuni esponenti del suo stesso partito, già critici sulla scarsa efficacia mostrata dal premier nell’affrontare, finora, la crisi. Non è un caso, ad esempio, che il solerte Franceschini, uno dei primi a schierarsi a testuggine a difesa del premier, stia limitando molto le sue uscite pubbliche, segno che qualcosa non va. Il fastidio di Orfini, soprattutto sulla disgraziata scelta di “chiudere i porti”, retaggio di una stagione gialloverde che si pensava in archivio, è invece noto da tempo. Altra voce autorevole del Partito Democratico è quella di Andrea Orlando. Anche il vice-segretario dem, nelle ultime ore, si è un po’ distaccato da alcune dichiarazioni del premier. Non dimentichiamo, poi, lo stesso ministro dell’economia Roberto Gualtieri che mal digerisce certe posizioni filo-grilline. Persino il segretario Nicola Zingaretti, sempre parco e moderato nei suoi interventi, spinge per il ricorso ad un meccanismo che garantisce una copertura di credito a zero interessi fino al 2% del PIL per interventi destinati alla sanità. La posizione del presidente del Lazio ricalca, in tutto e per tutto, il pensiero di Romano Prodi. L’ex presidente del consiglio è convinto che, alla fine, stilettate dialettiche a parte, l’Italia userà tutto: BEI (Banca Europea degli Investimenti), Sure, fondi europei destinati a finanziare la cassa integrazione negli stati membri, Recovery Fund, fondo di 1500 miliardi, proposto dalla Francia, interamente destinato ad affrontare le spese della ricostruzione post-pandemia e anche il “nuovo” MES senza condizioni.

Non mancano poi gli alleati “esterni” al PD. Enrico Letta, negli ultimi giorni, è molto attivo sui social e non solo. La battaglia che sta conducendo l’ex premier si concentra su due fronti. Da un lato sta spendendo la sua credibilità con i leader europei; dall’altro sta facendo pressioni, più o meno velate, su una parte del suo partito affinché non abbandoni, a prescindere, l’idea del MES. Anche i due rappresentanti più alti dell’Italia in Europa, David Sassoli e Paolo Gentiloni, stanno facendo sentire la loro pressione.

Attenzione anche ad un alleato, inaspettato ma non troppo, delle ultime ore: Silvio Berlusconi. Ieri sera (martedì, n.d.r.), è stato ospite telefonico nella trasmissione di Giovanni Floris. L’occasione è stata l’ennesima per testimoniare, se non un certo fastidio, almeno una certa distanza rispetto a posizioni e toni dei suoi due alleati, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. “Abbiamo detto fin dal primo giorno che, in una condizione di assoluta emergenza, un’opposizione responsabile non fa ostruzionismo, anzi si stringe intorno alle istituzioni. Ed è quello che noi stiamo facendo. Siamo critici con il governo, ma non è il momento della polemica politica”. La differenza con i due alfieri del sovranismo è evidente per toni e contenuti. Forza Italia, per bocca del suo presidente e fondatore, fa capire che, pur critica col governo, sarà collaborativa.

Non sfugga, però, un ulteriore passaggio dell’intervento di Silvio Berlusconi. L’ex premier sa bene delle fibrillazioni interne alla maggioranza, soprattutto sponda Italia Viva, da subito in posizione critica rispetto al governo e a Conte in particolare. “Per il futuro ci vorrà un governo davvero rappresentativo degli italiani”. La frase, in sé, può voler dire tutto o niente. Tuttavia, se facciamo marcia indietro, la dichiarazione sembra aprire a quella che era, probabilmente, l’idea originaria del principale responsabile della nascita di questo governo: Matteo Renzi. L’ex premier fiorentino, da subito, spingeva forte per un governo di scopo, senza limitare il perimetro della maggioranza solo a Partito Democratico, Liberi e Uguali, Movimento 5 Stelle e, appunto, Italia Viva. L’idea di Renzi, piuttosto, era quella di un governo del presidente che si prendesse la responsabilità di fare le riforme.

Questa idea, mai tramontata dalle parti di Italia Viva, potrebbe riprendere corpo adesso. In molti, infatti, mal digeriscono la guerra che Conte, quasi in solitaria, sta conducendo contro Meloni e Salvini.

Questo protagonismo dell’attuale premier si traduce in due effetti. Il primo è il tentativo di misurarsi elettoralmente: si parla di appositi sondaggi per misurare un suo ipotetico partito. Il secondo, più evidente, sta nel tagliarsi fuori dal ruolo di “capo della ricostruzione”. Più volte, infatti, si sentono dichiarazioni, confermate poi dalla tragicità delle previsioni post-crisi, che equiparano l’uscita dalla pandemia ad un dopo-guerra. Le uscite scomposte di Conte, è chiaro, non lo legittimerebbero come leader nazionale della futura ricostruzione. Andare allo scontro con l’opposizione, anziché provare a comporre le fratture esistenti, lo taglia fuori quando, e se, ci sarà bisogno di unire il Paese per ripartire tutti insieme.

Ad ora la miccia non è esplosa, né è possibile che esploda a breve. Diversi sarebbero, d’altronde, gli ostacoli ad una sostituzione di Conte. In primis i numeri da trovare in Parlamento. Le ultime uscite del premier, infatti, lo hanno rilegittimato agli occhi dei 5 Stelle. Soprattutto l’ala più conservatrice, che fa capo a Luigi Di Maio, quella che ha più voti in aula, nel caso si andasse allo scontro aperto, sarebbe pronta a sostenerlo. Ci sarebbe, poi, da misurarsi con il gradimento personale in ascesa del premier. Sostituire adesso Conte potrebbe essere un problema serio, dato che la maggioranza degli italiani sembra essere convinta della bontà delle sue scelte.

Il malcontento, però, c’è. Anche se adesso non ci si pone questo problema, presto o tardi una parte della maggioranza potrebbe pensare alla sostituzione di Conte. Magari col sempreverde Mario Draghi, ormai assurto al ruolo di uomo della provvidenza. Oppure con Vittorio Colao, manager stimato anche da Renzi, uomo a capo della nuova task-force o pescando qualche nome finora tenuto nascosto.

Quel che è certo è che nella maggioranza la situazione non è poi così tranquilla. Le prossime settimane, oltre che per la pandemia, saranno decisive anche per il futuro del governo e dello stesso Giuseppe Conte.