Giorno 230

In copertina: Erdogan, l’unico che vende un’immagine di mediatore (in realtà impossibile) per scopi elettorali interni alla Turchia

Orio Giorgio Stirpe

Si dice che la politica sia l’arte del possibile.

Non si tratta certo del mio settore di esperienza, ma ritengo che se è vero, questo lo sia ancor più quando per politica ci si riferisce in particolare a quella internazionale, campo d’azione della diplomazia.

In questo caso per la diplomazia di questi giorni ci sono almeno due cose che sono assolutamente impossibili.

La prima è che Putin accetti una qualsiasi proposta di trattativa – tantomeno una soluzione – che non sia basata sull’accettazione sostanziale delle annessioni appena effettuate. Ormai ha legato ad esse, quali risultato tangibile della sua strategia anti-occidentale e anti-ucraina, il suo destino personale e anche la sua eredità storica. Una qualsiasi rinuncia in merito, a questo punto si risolverebbe in base alla sua stessa retorica in una inaccettabile amputazione territoriale per la Russia, e lui non potrebbe sopravvivere politicamente ad una tale perdita.

La seconda, di contro, è appunto che Zelensky accetti anche solo di trattare sulla base di concessioni territoriali rispetto ai confini internazionalmente riconosciuti, soprattutto nel momento in cui le sue Forze Armate stanno lentamente ma inesorabilmente riconquistando i territori recentemente occupati. L’umore popolare, il morale dell’esercito e la determinazione dei membri del Parlamento sono tali che seppure ritenesse di accettare anche solo in linea di principio qualche sacrificio territoriale, verrebbe immediatamente rimosso e sostituito con una figura più risoluta.

La combinazione di queste due impossibilità rende del tutto improponibile spingere per un negoziato di pace, e continuerà a renderlo tale fintanto che le due impossibilità permarranno.

Se qualcuno ancora si chiede come mai nessuno si fa veramente avanti per tentare una mediazione, la risposta è questa: nessun aspirante mediatore è disposto a “bruciarsi” in un tentativo chiaramente destinato a cadere nel vuoto più totale.

Apparentemente fa eccezione Erdogan, che in realtà si limita ad esprimere una disponibilità solo generica, in quanto è pressato dal proprio calendario elettorale e ha bisogno di mostrare presenzialismo e autorità a livello internazionale per cercare di sollevare le sue personali prospettive politiche.

Tutte le altre personalità tali da poter avere un ruolo di mediazione nel conflitto (il Segretario Generale dell’ONU, i Presidenti di India e Cina, il Papa…) evitano accuratamente di impegnarsi in questo momento sfavorevole per evitare di perdere l’opportunità di tentarlo in seguito in un momento più opportuno.

Questo è un dato oggettivo, e il disperato desiderio di fasce pur consistenti di opinione pubblica occidentale di veder avviato un processo di pace immediato non può cambiare le cose: anche dimostrazioni pubbliche con milioni di persone in piazza a Roma o a Berlino lascerebbero le parti in conflitto del tutto indifferenti.

L’impossibilità di procedere per via diplomatica verso al risoluzione del conflitto lascia per il momento aperta la sola via militare, ed infatti le operazioni proseguono, anche se rallentate dalle condizioni meteorologiche sfavorevoli e dal crescente depauperamento delle risorse logistiche di entrambe le parti.

In teoria il rallentamento delle operazioni militari aprirebbe a sua volta uno spazio di possibilità alla diplomazia, ma permanendo le condizioni attuali questa rimane come abbiamo visto del tutto impotente.

Cosa può annullare queste due impossibilità incrociate che rendono impossibile ogni trattativa?

Il rifiuto di trattare da parte di Putin può essere rimosso unicamente togliendo di mezzo lo stesso Putin: è lui a creare, con la sua politica determinata di taglio dei ponti alle proprie spalle, le condizioni per il suo stesso rifiuto. Solo un cambio al vertice del Regime russo potrebbe portare ad un annullamento delle annessioni da lui volute e quindi ad una situazione per cui queste non debbano essere una precondizione ad ogni trattativa.

La rimozione di Putin può essere ottenuta unicamente per opera della Nomenklatura del Regime stesso, una volta che questa si renda conto fino in fondo che la guerra non può essere conclusa militarmente in maniera soddisfacente, e che la permanenza al potere dell’attuale autocrate non serve più gli interessi della Russia e della Nomenklatura stessa. Per raggiungere questa condizione, occorre che la pressione militare ucraina – sostenuta dal costante supporto occidentale – prosegua fino a rendere ineluttabile l’eventualità di una sconfitta militare definitiva per la Russia.

Per evitare tale esito inaccettabile, la Nomenklatura procederà alla rimozione dell’ostacolo alle trattative, rappresentato appunto da Putin.

Il rifiuto a trattare da parte di Zelensky NON può essere rimosso con l’eliminazione di Zelensky: la posizione del Presidente ucraino, infatti, è quella di un rappresentante eletto della sua Nazione e non quella di un autocrate, e quindi è come già detto rappresentativa della volontà della popolazione e del Parlamento.

Per sovvertire la volontà di combattere, piuttosto che cedere territori da parte degli ucraini, occorrerebbe rendere loro impossibile continuare a sostenere militarmente il conflitto.

Poiché l’intera forza della “seconda potenza militare” del mondo si è rivelata incapace di ottenere tale risultato, l’unico modo sarebbe arrestare il sostegno militare occidentale all’Ucraina. Per raggiungere questa condizione, la propaganda russa sta svolgendo la sua fortissima pressione sull’opinione pubblica occidentale, nella speranza che questa a sua volta costringa i Governi a interrompere “per amor di pace” tale sostegno.

Siccome l’Occidente appare coeso nel suo sforzo di sostenere l’Ucraina fino a spezzare la prima condizione di impossibilità alle trattative diplomatiche, il Regime russo attuale per salvarsi deve assolutamente cercare di ottenere prima che sia troppo tardi la cancellazione della seconda condizione.

Per questa ragione la maggior parte delle azioni russe a questo punto devono essere lette in base agli effetti che si propongono di ottenere sull’opinione pubblica occidentale piuttosto che sulla stessa Ucraina.

La mobilitazione, il continuo tentativo di coinvolgere altri Paesi quali la Bielorussia, le campagne denigratorie sulle leadership occidentali, i sabotaggi ai gasdotti, i tentativi di attacchi “ibridi” e le stesse sconclusionate minacce nucleari, fanno tutti parte di uno stesso schema, volto a presentare il rischio di un qualche “allargamento” del conflitto e quindi a spaventare l’opinione pubblica occidentale quanto basta da farla sollevare contro i propri Governi e costringerli a cambiare politica.

Coloro che in Occidente spingono per arrestare il sostegno all’Ucraina con la convinzione che questo serva a impedire l’allargamento del conflitto e magari anche a portare ad una sua conclusione – seppure al prezzo di costringere l’Ucraina ad un sacrificio che non è disposta a compiere – dovrebbero rendersi conto di essere funzionali allo sforzo di Putin per salvare il proprio Regime e sottomettere un Paese libero.

So bene che la larga maggioranza di queste persone sono assolutamente in buona fede, e che trovano offensivo essere equiparate a meri strumenti di un dittatore: loro sono convinte di essere mosse da motivazioni etiche onorevoli.

Ma se è così, allora dovrebbero forse provare a chiedersi se aiutare un Regime autocratico a sopravvivere e prevaricando un popolo libero, rappresenti una motivazione eticamente superiore a quella di sostenere quello stesso popolo libero contro un Regime autocratico.

L’ultima speranza dell’orso Vladimiro è proprio che queste persone scelgano di continuare a sostenere lui, il suo Regime, e il suo tentativo di prevaricazione.

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